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Questo articolo è stato pubblicato il 14 agosto 2011 alle ore 15:13.

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«Corporations are people, my friend». La risposta seccata di Mitt Romney, candidato repubblicano alle presidenziali del 2012, durante il comizio nello Iowa di pochi giorni fa, ha spopolato sulla stampa americana, divisa fra chi lo prende in giro e chi gli dà ragione. Al microfono, Romney stava giustificando il controverso nyet del Congresso alle politiche fiscali di Obama: «Non vogliamo alzare le tasse alla gente». «Alle aziende!», ha urlato uno spettatore. Di qui, la replica: le aziende sono persone, amico mio.

Anche a volerle personificare, sulle corporation americane pende una spada di Damocle che turba i sogni bipartisan di democratici e repubblicani: la fine di un dominio lungamente incontrastato. «Le multinazionali dei mercati emergenti – ammettono alla Banca Mondiale, in un recente report – stanno cambiando radicalmente lo scenario della produzione e degli investimenti globali».

Tanto per dare un'idea, fra il 1994 e il 2003 le grandi imprese emergenti avevano effettuato solo il 4% delle fusioni e acquisizioni su scala globale. Ma fra il 2004 e il 2010, quella percentuale è salita al 17, pari a un esborso di 1.100 miliardi di dollari. Se nel 2007 c'erano 47 "nuove" multinazionali nella classifica Global 500 di Fortune – le prime 500 imprese mondiali per fatturato – nel 2010 sono diventate 95. Oltre la metà delle operazioni transnazionali di merger and acquisition del 2010 (5.623 su 11.113) hanno coinvolto un'azienda dei paesi emergenti, come preda o predatrice. Quanto al futuro, se gli investimenti in ricerca e sviluppo sono oggi dominati dalle economie avanzate (88%), nella classifica delle mille corporation mondiali che scommettono di più sui brevetti c'erano 57 emergenti nel 2004 e 117 l'anno scorso.

I mercati ne hanno preso atto. Nel 2000, nella classifica delle prime mille società del mondo per capitalizzazione di Borsa, le emergenti erano solo il 10%. L'anno scorso, rappresentavano già il 31% del totale e la quota è destinata a crescere: secondo un recente paper di Ernst & Young, ne hanno ben donde. La società di consulenza ha preso a campione le prime 150 multinazionali dei paesi emergenti, e ha confrontato la loro performance azionaria con un paniere delle corporation occidentali. Nel periodo 2006-2010, la crescita media annua ponderata del fatturato è stata, per i primi del 17%, per i secondi del 5. E il margine operativo del 24 contro il 18%. Le società brasiliane risultano le prime per crescita del fatturato (+27% all'anno) e quelle cinesi per aumento della redditività (+33%). Ma il divario più clamoroso s'è visto proprio sulle performance di Borsa: nello stesso quinquennio, +132% contro +6%.

Ovviamente, nella Global 500 di Fortune (basata sul fatturato) svettano ai primi posti colossi emergenti dell'energia: le cinesi Sinopec, China National Petroleum e State Grid (che sono la quinta, la sesta e la settima al mondo). Ma nella Ft Global 500 del Financial Times (basata sulla capitalizzazione) al quinto posto c'è Petrobras, la compagnia petrolifera brasiliana che - secondo alcuni analisti – potrebbe superare per valore la ExxonMobil, grazie alla sua crescente dote di giacimenti. Al numero due c'è pur sempre Petrochina e al numero cinque la Industrial & Commercial Bank of China. Ma attenzione: questi sono dati ad aprile 2011, quando la Apple era terza e non era ancora arrivata sulla vetta del mondo azionario.

Nelle sue conclusioni, la Ernst & Young dice che la crescita dei mercati azionari emergenti (in prima fila ci sono India, Messico, Turchia, Sudafrica, Malesia, Indonesia, Thailandia, Chile e Argentina) «non è un bolla», che ha «solide basi finanziarie» e che, in sostanza, è figlia di un processo storico inarrestabile. «Ma la buona notizia è che la crescita economica non è mai un gioco a somma non-zero». Un gioco a somma zero è il tennis, dove ogni punto va all'uno o all'altro giocatore. Nel round finale della globalizzazione – ovvero la nascita di un mondo multipolare, senza più un'unica e sola superpotenza – ci sono opportunità per tutti: nuovi e vecchi giocatori.

Lo scenario competitivo si fa più duro, anche perché diventa più imprevedibile. Nei paesi emergenti, come nei paesi di vecchia industrializzazione, le multinazionali hanno la forza di imprimere il cambiamento. «Negli anni a venire – si legge nel report della Banca Mondiale, Justin Lin – è probabile che queste aziende spingeranno per le riforme in casa propria, per ottenere una maggiore integrazione nel commercio e nella finanza internazionale».

A Washington, questo si chiama lobbying ed è un mestiere molto rispettato. Soprattutto dai repubblicani. Così, le corporation non sono people davanti al divergente trattamento del bipartitismo locale. Ma, da un'altro punto di vista, ha ragione Romney: corporations are people perché le aziende, anche multinazionali, sono fatte dalle persone. E le persone dentro le imprese globali del Nuovo Mondo, non vedono l'ora di giocare all'ultimo round della globalizzazione. Sarà avvincente.

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