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Questo articolo è stato pubblicato il 17 agosto 2011 alle ore 08:03.

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Anche Wall Street vedeva rosa, e l'ultima ondata di 'siamo alla fine, si torna alla luce' c'è stata con le previsioni di fine 2010, a maggioranza sicure di un 2011 positivo.
Il mondo degli economisti delle grandi banche e degli analisti finanziari si muove su una prospettiva che non risale quasi mai oltre la Seconda guerra mondiale. Questo mezzo secolo, e poco più, anche se può apparire a tratti accidentato, è stato invece notevolmente ordinato. Chi fa previsioni a Wall Street conosce bene i cicli economici, dalla recessione postbellica del 1948-49 a oggi, ma non basta. Se si va ben oltre, a ritroso, come abbiamo fatto noi, e si prendono nella dovuta considerazione gli anni Trenta, dopo il crollo di Wall Street del 1929, ci si accorge che la prospettiva cambia. A partire dal 2010 voci autorevoli della Washington ufficiale parlavano degli anni Trenta come unico confronto. Ma c'è voluto tempo perché il messaggio, piuttosto scoraggiante lo ammetto, passasse.

In un recente articolo lei ha parlato ancora di Second Great Contraction: come negli anni Trenta, l'economia gonfiata dal debito deve tornare a dimensioni più sane.
La Great Contraction è stata quella degli anni Trenta e nel nostro libro noi abbiamo coniato il termine Second Great Contraction proprio per contrastare la definizione subito in uso e sbagliata di Great Recession, una sorta di recessione più severa ma che avrebbe in fondo seguito l'iter normale delle recessioni, solo un po' più lunga e penalizzante. I dati raccolti indicano che quando le crisi sono di rilevanti proporzioni c'è un generale e prolungato calo di produzione, occupazione, si contrae anche il debito e il credito. Credo che la riduzione del debito non debba essere fortissima, per poter riprendere il cammino, ma comunque sensibile, e siamo ancora in questa fase.

Quanti anni di crisi ci restano?
I dati raccolti indicano in 6-7 anni la durata storica di una crisi della portata di quella attuale. Poiché siamo al quarto anno, ancora due, forse tre.

Che cosa distingue le difficoltà americane da quelle europee, nonostante i numerosi punti in comune?
Il dato distintivo della vicenda americana è la crisi dell'edilizia abitativa e dei mutui, che hanno gonfiato la finanza e alla fine sono esplosi. In Europa il dato peculiare è la crisi del debito pubblico incominciata in tre piccoli Paesi, con cause diverse, e poi estesa anche ad altri, Spagna e Italia per primi. Ma anche gli Stati Uniti sono arrivati a un problema di debito pubblico.

Negli Usa è stato un errore non affrontare con più decisione la crisi dei mutui, agevolando la loro rinegoziazione e adeguamento a valori più bassi?
Questo è stato l'errore centrale fatto da Washington, che ha speso molto per tamponare le conseguenze andando in maniera insufficiente a sanare le cause, i mutui appunto. I Tea Party, che non so fino a che punto riusciranno a essere protagonisti, hanno dato un contributo a questo, dicendo che era ingiusto aiutare chi si era comperato con il mutuo facile una casa sproporzionata al reddito. Ma l'errore dell'amministrazione Obama è stato grave. La credibilità di Esecutivo e Congresso è stata poi pesantemente indebolita dal negoziato sul debito, che ha dato la sensazione che nessuno controlli gli eventi, a Washington. Al tutto si è aggiunta Standard & Poor's.

È sempre dell'idea che alcuni anni di moderata inflazione, tra il 4 e il 6%, sarebbero utili?
Sì, e su questo mi sono preso notevoli reprimende. Ma comunque, questa storia finirà con un aumento dell'inflazione, perché sempre la storia del debito eccessivo è finita così. Allora, poiché le banche centrali hanno gli strumenti per controllarla, sarebbe meglio pianificarla. Io sono un falco sull'inflazione, la combatto, e so benissimo che quando sfugge di mano è perniciosa. Ma non si può non ricorrere anche a questo strumento, moderatamente, per riportare i debiti sotto controllo.

Sottoscrive il pessimismo di chi vede un declino dell'Occidente?
Solo in parte. Un certo declino, americano in particolare, ma anche europeo dove però l'esperienza non è nuova, è inevitabile. Gli altri crescono. Ma non sarà un galoppo senza fine. Non appena le economie sviluppate, le nostre più il Giappone, si saranno assestate, i capitali che ora vanno verso gli ex emergenti ormai emersi torneranno verso i Paesi di vecchia industrializzazione. E allora potremo forse avere Stati di crisi altrove.

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