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Questo articolo è stato pubblicato il 30 settembre 2011 alle ore 06:43.

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Mediobanca è a metà dell'opera sul dossier Bpm. Per mandare in fase esecutiva l'aumento di capitale che si è impegnata a garantire ha posto due condizioni: che fosse riformata radicalmente la governance e che del consiglio di gestione della banca facciano parte nomi di indubbia indipendenza dalle logiche finora imperanti. La prima parte, con l'adozione del modello duale, va nella direzione auspicata. Certo, l'ipotesi è che 11 membri su 17 del supervisory board siano ancora nominati dagli Amici della Bpm. Ma, secondo la bozza approvata dal cda, al consiglio di sorveglianza – unico caso in Italia – non spetterebbero nemmeno i poteri di indirizzo strategico. Tutti i poteri di conduzione della banca farebbero capo invece al consiglio di gestione, la cui composizione dovrebbe essere tale da scongiurare appunto "interferenze" esterne.
Alla Banca d'Italia questa impostazione non dovrebbe essere sgradita, dal momento che la riscrittura dello statuto Bpm – con la consulenza di Piazzetta Cuccia a superare le criticità emerse dall'ispezione della Vigilanza – è stata seguita passo-passo da via Nazionale e che quest'ultima avrebbe subordinato all'adozione di una governance efficace lo "sconto" sulla ricapitalizzazione inizialmente sollecitata in 1,2 miliardi. Alla Banca d'Italia spetta comunque l'ultima parola, con il responso sul nuovo statuto che potrebbe arrivare a ridosso dell'assemblea prevista per il 22 ottobre. Ma, per quanto concerne Mediobanca, l'aumento di capitale (il mandato scade formalmente il 31 ottobre) non partirà comunque sotto la sua regia se prima non si saranno insediati i nuovi organi sociali e se i nomi non saranno coerenti con l'obiettivo di una svolta sostanziale rispetto al passato. Con una nuova formula, nel giro di qualche anno potrebbe forse ripartire la ricerca di un'aggregazione che Piazzetta Cuccia aveva cercato di mandare in porto anni fa con Bper, matrimonio saltato allora sull'altare per il niet dei sindacati milanesi.
Nessuna pregiudiziale invece sui possibili ingressi nel capitale di nuovi soci. Dal suo punto di vista, l'istituto guidato da Alberto Nagel considera con favore qualsiasi apporto a sostegno della ricapitalizzazione. Ma i contatti è bene siano tenuti direttamente dalla banca con gli investitori interessati: la Sator di Matteo Arpe, la Investindustrial di Andrea Bonomi e il fondo Clessidra di Claudio Sposito. Mentre non risulta che Arpe si sia fatto avanti finora con i "milanesi", discussioni sono invece già state avviate con Bonomi e Sposito, non necessariamente antagonisti. Tuttavia, poichè l'esito di questi colloqui potrebbe avere riflessi sulla composizione del consiglio di gestione non è detto che si riescano a contemperare le esigenze di tutti. Per esempio, è dato per scontato che se l'interessamento di Bonomi si concretizzasse, tre posti su cinque del consiglio di gestione sarebbero già prenotati: per lo stesso Bonomi, per il suo partner Dante Razzano e per l'ad Enzo Chiesa.
In ogni caso, l'investimento dovrà passare dal mercato. Poichè la delibera sull'aumento di capitale non prevede l'esclusione del diritto d'opzione, non potrà essercene una parte riservata all'ingresso di nuovi soci. Gli investitori interessati dovrebbero acquistare prima azioni e/o diritti dai vecchi soci e solo poi potrebbero quindi contribuire all'operazione da 800 milioni. Il che spiega, probabilmente, il gran fermento sul titolo in Borsa.
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