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Questo articolo è stato pubblicato il 13 ottobre 2011 alle ore 18:10.

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C'è un dato che dovrebbe far riflettere molto sui requisiti di capitale delle banche. E quel dato non può prescindere dalla parabola amara di Dexia, veloce e inattesa. La banca franco-belga che sarebbe fallita senza l'intervento pubblico vanta tuttora un Tier 1 oltre il 12%. Un coefficiente che le ha permesso di superare brillantemente uno stress dietro l'altro e che è assai più alto della media delle banche italiane.

Che però non hanno portafogli imbottiti di titoli tossici e che di certo non sono fallite, come invece il colosso franco-belga. Vista così c'è evidentemente qualcosa che non quadra e che lascia sbigottiti. Ma come fa a fallire una banca in regola con i coefficienti patrimoniali? La domanda non è oziosa. Anzi. Solleva più di un velo sull'inadeguatezza e le distorsioni regolatorie delle varie norme di Basilea.

Dexia: capitale basso Tier 1 alto
Quel Tier 1 a prova di bomba di Dexia è frutto in realtà di un calcolo degli attivi rischiosi assai opinabile. Già, perché il valore del Tier 1 è alto non perché c'è molto capitale in Dexia, anzi ce n'è ben poco. Solo 15 miliardi, quando una banca come l'italiana IntesaSanpaolo, solo poco più grande come attività totali, di capitale ne ha per oltre 57 miliardi. Una sproporzione che non regge. Se si guardano i numeri dei bilanci si scopre in generale che banche più tradizionali con poca attività speculativa finanziaria hanno più capitale a parità di attivi di bilancio delle grandi banche d'affari del Nord Europa. Si pensi a Deutsche Bank. Il suo patrimonio è di 49 miliardi di euro. Meno, molto meno dei 64 miliardi di patrimonio su cui poggia UniCredit su cui molti spingono per una nuova ricapitalizzazione. Eppure anche in questo caso UniCredit è assai più piccola del gigante tedesco.

Il paradosso
La banca italiana siede su attività totali per 930 miliardi, quando Deutsche Bank manovra poco meno di 1.900 miliardi, più del doppio dell'istituto di Piazza Cordusio. Che però viene paradossalmente ritenuto dagli osservatori, che guardano solo al Core Tier 1 delle due banche, come meno solido. Gli esempi potrebbero continuare: SocGen muove oltre mille miliardi di attività con quelli ritenuti a rischio che valgono solo 343 miliardi, un terzo. Idem per Ing che ha attivi a rischio per solo il 25% del suo bilancio. Eppure il buon senso dice che lavorano su terreni assai più rischiosi le grandi banche d'investimento che non le banche retail.

Banche retail penalizzate
Il paradosso è tutto qua: nel calcolo degli attivi a rischio pesa assai di più il credito e i mutui a famiglie e imprese che non il trading finanziario, considerato a rischio basso se non zero. Ma è dal trading e dai portafogli titoli che le banche possono fallire come ha dimostrato prima Lehman e ora Dexia. E quell'aspetto paradossale ha una sua logica. I crediti e i mutui sono di difficile smobilizzo, mentre i titoli finanziari sono ritenuti attività liquidabili facilmente e quindi non sono una minaccia per la solidità delle banche. Può essere, ma c'è un ma grande come una casa. Tutto può avere un senso finché il mercato degli asset finanziari resta sempre liquido. I titoli hanno un prezzo e sono negoziabili. Ma quando, come è successo più volte dalla grande crisi del 2008, il mercato si blocca allora il castello non sta più in piedi.

Quelle attività possono perdere metà del loro valore in pochi istanti e non recuperarlo per molto tempo, mentre i crediti che vanno in sofferenza sono sì una minaccia ma c'è un tempo lungo che può anche permettere di sperare in un rientro. D'altronde è proprio successo così. Sia per Lehman e ora per Dexia la miccia stava nel portafoglio titoli magari con rating tripla A, come i subprime impacchettati, ma con valori dimezzati. E quando la leva è molto alta come accade per le banche d'investimento, basta una svalutazioni di pochi miliardi per veder evaporare l'intero capitale. Una lezione ancora da metabolizzare.

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