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Questo articolo è stato pubblicato il 18 ottobre 2011 alle ore 19:15.

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Barclays, il fisco e le banche italianeBarclays, il fisco e le banche italiane

Chi immaginava che il «Guardian» mettesse tutto online smascherando gli artifici di Barclays, ideati per eludere le tasse e per farle eludere alle controparti di mezzo mondo. A Londra è scoppiato il finimondo. Ma in pochi hanno fatto caso che uno dei sette dossier riservati coinvolgeva due banche italiane: UniCredit e Intesa. Si chiama progetto «Brontos». Eccolo, ed è tutto molto semplice.

Una controllata britannica di Barclays (BarSub) crea un società a responsabilità limitata in Lussemburgo (LuxParent), che a sua volta ne crea un'altra (LuxSub). LuxParent e LuxSub sottoscrivono dei Ppi (Profit partecipating instruments, ossia i titoli oggetto dell'operazione). Intanto Barclays trasferisce 2 miliardi di lire turche alla propria filiale di Milano (Milan Branch), che le investe nei Ppi emessi da LuxSub, che a sua volta crea un Bare Trust (trust nudo) in Uk, che investe le lire turche con i soldi di Barclays e LuxSub. A questo punto la banca italiana si fa finanziare per un miliardo di € e con la Milan Branch sottoscrive un cross currency swap e un repo (pronti contro termine). A questo punto LuxParent gira l'acquisto dei Ppi da BarSub, che s'è fatta garantire da LuxSub, che ... . A questo punto ci fermiamo perché ci siamo persi.

Possibile? Sì, perché tutto questo artificio è stato costruito nel marzo 2007 in maniera così complicata, da confondere anche il miglior funzionario del Fisco inglese e italiano. Lo scopo è eludere le tasse e farle eludere alle proprie controparti. Il caso ha fatto clamore in Gran Bretagna ed ha avuto una risonanza negli Stati Uniti. E la sta per avere anche in Italia. Perché le due controparti nostrane indicate dal progetto Brontos (ossia brontosauro e non si capisce se riferito ai due istituti italiani o alla mostruosità descritta nelle 21 pagine del documento) sono UniCredit e Intesa Sanpaolo. La prima sarebbe stata coinvolta per investimenti pari a 2,5 miliardi di € e la seconda per un miliardo. Alla fine, l'operazione avrebbe dovuto generare poco più di 75 milioni di utili extra: tasse risparmiate da dividere tra le banche italiane e l'istituto inglese. E non solo. Perché, come recita il «memo» di Barclays: «Le controparti otterranno un accresciuto ritorno prima delle tasse e riceveranno utili in buona parte fiscalmente esenti, mentre potranno pienamente dedurre i costi di finanziamento e le relative spese». Par di capire che a Barclays, il diavolo tentatore, andrebbe una significativa fetta dei vantaggi.

Si sono fatte tentare le due banche italiane? Intesa dice di no: «Non siamo entrati nell'operazione prospettata dal progetto Brontos», ha dichiarato un portavoce della banca. UniCredit, invece, ammette di aver fatto qualcosa, ma non quello raccontato sopra: «L'operazione non è comunque stata realizzata da UniCredit nei termini e nelle modalità descritte dal documento, ma con modalità assai diverse», riferisce una fonte ufficiale. E aggiunge che non c'è stato alcun «fine di elusione/evasione fiscale», che tutto è stato comunicato al «Fisco inglese», «esaminato anche dalla società di revisione italiana» e «tiene conto di interpretazioni ufficiali dell'Amministrazione finanziaria italiana .. nella sostanza e non nella mera forma».

Il caso Barclays è scoppiato il 16 marzo, quando il giornale inglese The Guardian ha pubblicato sul suo sito online sette documenti riservati della banca (Memo), inviati in precedenza da un'anonima «gola profonda» a Vince Cable, il liberal-democratico ministro ombra del Fisco inglese. Gli avvocati di Barclays si mettono subito in moto e dopo qualche ora riescono a ottenere dal giudice la rimozione dei documenti «illegalmente acquisiti» dal delatore. Ma in altri siti è rimasta traccia e intanto lo stesso Cable li aveva passati a Her Majesty's Revenue & Customs, ossia all'ufficio delle imposte inglese. «I documenti – ha dichiarato Cable – suggeriscono una profonda e radicata cultura di elusione fiscale. Il team di Barclays sembra un ragno al centro di una artificiosa tela di operazioni non trasparenti attraverso i paradisi fiscali».

Ovvio che lo scandalo sia montato in Inghilterra perché, indipendentemente dalla liceità formale delle varie operazioni proposte, è apparso ai sudditi di Sua Maestà moralmente improponibile, specie per una banca che lo scorso anno ha svalutato attività per 8 miliardi di sterline e potrebbe dover ricorrere ai soldi dei contribuenti. Le reazioni si sono estese all'Italia, visto che il 31 marzo Antonio Borghesi, deputato dell'IdV, ha presentato un'interrogazione al ministro del Tesoro in cui si chiede se siano accettabili «ancorché legalmente ammissibili» operazioni come quelle descritte nel progetto Brontos. Hanno voglia i vertici di Barclays ad affermare che la banca «non incoraggia e nè consente l'evasione fiscale», ma quelle 110 persone impiegate nello Structured Capital Market, il ramo di Barclays Capital creato per congegnare queste cervellotiche operazioni, sono lì, per dirlo con le parole di Cable, «con il solo proposito di strutturare operazioni fiscalmente aggressive allo scopo di evitare il pagamento delle tasse, non solo per Barclays ma anche per banche e società sparse nel mondo».

Dei sette "Memo" (tutti del 2007), quelli denominati Brontos e Valiha (con Credit Suisse come controparte) sembrano congegnati - ha affermato Lord Matthew Oakeshott, portavoce del Tesoro - per «stare un millimetro dentro la legge in ciascuno dei Paesi interessati». Altri (progetto Knight) coinvolgono l'americana Branch Banking Trust Company, il progetto Faber è studiato per la tedesca Nordbank Ag, mentre quelli denominati Berry, Brazilian e Lux riguardano operazioni con controllate estere di Barclays e spesso fanno sponda su società lussemburghesi e delle Cayman.

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