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Questo articolo è stato pubblicato il 10 novembre 2011 alle ore 08:10.
Cosa succede al correntista se "fallisce" la sua banca?
I casi di fallimento di istituto di credito sono assai rari nella storia italiana, visto il ruolo della Banca d'Italia di vigilanza sulla stabilità e la solidità patrimoniale delle banche. In ogni caso una precisa normativa interviene in questo caso a tutelare i depositanti. Il Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) è un istituto che restituisce ai correntisti il denaro depositato fino a un massimo di 100mila euro (in caso di c/c cointestati il massimale si applica per ciascun intestatario); il denaro viene "restituito" al correntista venti giorni dopo la dichiarazione di liquidazione coatta e amministrativa.
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Cosa succede se fallisce il consulente finanziario che segue le operazioni e gli investimenti del risparmiatore?
Nulla, in quanto è la banca che garantisce per il suo lavoro, sia che si tratti di un addetto allo sportello bancario o che si tratti di un promotore finanziario. Nel primo caso è dipendente dell'istituto, nel secondo è un professionista da cui ha ricevuto un mandato dalla banca o network finanziario. È tuttavia opportuno informare sia l'istituto che le autorità di vigilanza di movimenti che possono apparire anomali. Differente il caso dei consulenti finanziari indipendenti: vengono pagati "a parcella" e non possono essere remunerati dalle società i cui prodotti sono sottoscritti dai loro clienti.
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Cosa succede ai sottoscrittori di fondi comuni se la banca presso cui sono depositati fallisce?
Il denaro conferito in un fondo comune, come le azioni e le obbligazionari inseriti in un conto titoli, sono patrimonio separato da quello della società di gestione di risparmio (Sgr) o della banca. In caso di insolvenza della Sgr (o della banca che la controlla), sia titoli che fondi devono essere restituiti ai sottoscrittori. C'è un'altra garanzia nel caso in cui il patrimonio venga depositato in una banca terza. Questa controlla quotidianamente che non vi sia alcuna distrazione del patrimonio del cliente. Questi due istituti hanno assicurato che dall'introduzione della normativa sui fondi comuni (1983), nessun cliente abbia subito danni su questa categoria di strumenti.
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E ai pronti contro termine stipulati con la banca?
I pronti contro termine (Pct) non sono garantiti dal fondo di tutela dei depositi (Fitd) e sottostanno a due tipi di rischio, quello di controparte e quello legato al sottostante. Il primo vale nei confronti della banca con la quale si è stipulato il contratto: se questa dovesse fallire, al cliente resta comunque in mano il titolo a garanzia. L'altro rischio è rappresentato dall'obbligazione sulla quale è stato costruito il contratto Pct: se dovesse fallire l'emittente del titolo, la banca ha comunque l'obbligo di ritirare il sottostante a scadenza, a meno che non sia previsto diversamente nel contratto. Occorre dunque fare molta attenzione alle clausole contenute nel Pct. Può accadere che ci sia una sovrapposizione dei due tipi di rischi, perché il sottostante è un titolo emesso dalla stessa banca che ha stipulato il Pct.
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Che ne sarebbe dei titoli di Stato se fallisse l'Italia?
Nel caso la situazione si dovesse deteriorare in modo tale che il Tesoro non sia più in grado di fare fronte ai propri impegni con gli obbligazionisti (ipotesi di scuola, ma del tutto improbabile), l'Italia sarebbe costretta a dichiararsi insolvente. In tal caso i risparmiatori riuscirebbero a recuperare solo una minima parte dell'investimento iniziale (una percentuale impossibile da determinare a priori). Prima del default si potrebbe comunque tentare di raggiungere un accordo per la ristrutturazione del debito con gli obbligazionisti, simile a quello ottenuto dalla Grecia la scorsa settimana o a suo tempo dall'Argentina. I due esempi, diversi fra loro, indicano come non vi sia una via univoca alla soluzione del problema: gli investitori potrebbero subire un taglio del valore nominale dei propri titoli oppure un concambio con bond di differente valore o durata.
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E se l'Italia dovesse uscire dall'euro?
L'evento di un cambiamento di valuta non è preso in considerazione nei prospetti informativi dei titoli in circolazione. Uscire dall'euro, per lo Stato italiano equivarrebbe comunque quasi certamente a dichiarare default. Ma anche questa è un'ipotesi irrealistica.
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