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Questo articolo è stato pubblicato il 19 novembre 2011 alle ore 10:49.

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«Cercasi denaro disperatamente». Mario Draghi non poteva certo pronunciare in pubblico simili parole, perché un linguaggio così diretto mal si concilierebbe con il suo ruolo istituzionale. Ma il fatto che il neo presidente della Banca centrale europea (Bce) abbia ieri aperto un convegno a Francoforte dedicando i primi minuti dell'intervento alle banche e ai loro problemi di raccolta del denaro sui mercati (prima ancora di soffermarsi alle questioni del debito pubblico e alle diatribe sul futuro del fondo salva-stati) la dice lunga su una situazione che si fa sempre più complicata e che rappresenta la principale minaccia alla stabilità del sistema finanziario europeo.

Draghi conosce del resto bene questo aspetto, perché la Bce che lui guida è in grado di controllare quotidianamente quante e quali banche si presentino al suo sportello a chiedere denaro: ci sono quelle che lo fanno con operazioni di routine, cioè partecipando alle aste con cui Francoforte concede denaro in quantità illimitata e a tasso prestabilito (1,25%) per periodi che possono andare da una settimana fino a un anno. E ci sono quelle che, prese probabilmente con l'acqua alla gola, sono costrette a chiedere prestiti per una notte (overnight) bussando alla marginal lending facility, il «bancomat» a caro prezzo dell'Eurotower che chiede il 2% ogni volta che una banca inserisce il Pin.

E c'è pure qualche altro segnale che Draghi non ignora, paradossale per certi versi ma pur sempre figlio delle tensioni degli ultimi mesi: le banche che hanno denaro preferiscono spesso impiegarlo a tassi minimi pur di non cederlo a prestito. Così si spiegano per esempio i livelli record registrati dai fondi parcheggiati (231 miliardi ieri) presso la Bce a un tasso ben poco attraente (0,5%). Ma anche la corsa che le banche stesse fanno a quelle operazioni di sterilizzazione con cui Francoforte ritira il denaro utilizzato per acquistare i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà offrendo in cambio depositi a una settimana: all'ultima di queste, nonostante il tasso di remunerazione fosse un magro 0,61%, si sono presentate in 100 mettendo sul piatto 260 miliardi, ben oltre i 187 che la Bce doveva ritirare.

Il problema è che di questo passo il mercato interbancario rischia di congelarsi del tutto come avvenne nelle settimane successive al crack-Lehman. Gli analisti utilizzano un indicatore particolare per misurare questo genere sudori freddi, un termometro che rileva la differenza fra il tasso Euribor a una data scadenza (in genere 3 mesi) e l'overnight indexed swap (Ois). Il primo calcola (o almeno dovrebbe farlo) il costo a cui avvengono gli scambi di denaro a termine fra banche senza la copertura di garanzie: se la controparte a cui ho prestato fondi nel frattempo fallisce perdo tutto. L'altro si basa semplicemente su uno scambio di flussi in base ai tassi attesi: non c'è sottostante (cioè prestito di denaro) e i pericoli sono quindi di gran lunga inferiori. Questo scarto misura dunque il rischio di credito (o, se si vuole, il premio che le banche vogliono vedersi riconosciuto per prestare denaro) e in questi momenti viaggia a 90 punti base, ai massimi del dopo-Lehman (quando era addirittura balzato a quota 180).

Ma i problemi non sono soltanto confinati alla raccolta di euro, perché anche quando vanno a chiedere dollari che servono per le loro attività quotidiane le banche del Vecchio Continente deve pagare salato. Per la verità a New York sono ormai sempre più rari quelli che concedono prestiti oltre l'Atlantico e allora ci si deve affidare a uno stratagemma, cioè trasformare gli euro in dollari attraverso un contratto di «currency swap».
Il giochino però è molto costoso, perché chi presta valuta Usa chiede in cambio un «premio» sostanzioso per il disturbo: di solito il prezzo dell'operazione equivale alla differenza fra i tassi Libor in vigore nei due Paesi, che oggi sarebbe a favore di chi cede euro (1,41% contro 0,49%). Ma a questo valore oggi la banca che cerca dollari deve applicare uno sconto di quasi l'1,3% (130 punti base, anche questo ai massimi del dopo-Lehman) che dipende proprio dalla crisi finanziaria e che pesa come un macigno sugli istituti europei.

La disperata ricerca di fondi da parte di molte banche, e il rifiuto di concederli opposto da altre sono in fondo le due facce di una stessa medaglia. Il virus, oggi come tre anni fa, si chiama fiducia: Draghi e la Bce continuano a dispensare antibiotici garantendo denaro illimitato a tassi di favore, il mercato si augura che possano trovare quello efficace in tempi brevi.

m.cellino@ilsole24ore.com

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