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Questo articolo è stato pubblicato il 08 gennaio 2012 alle ore 14:34.

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UniCredit «giura» che sarà l'ultima iniezione di ricostituente fino al 2015, salvo che non succeda qualcosa all'euro. In effetti l'operazione di rafforzamento patrimoniale è massiccia: quasi 10 miliardi, il doppio dell'aumento di capitale realizzato da Intesa Sanpaolo in primavera, e più di quanto richiesto dall'Eba (European banking authority). Per 7,5 miliardi saranno gli azionisti a dover mettere mano al portafoglio, mentre altri 2,4 miliardi, dei 3 raccolti con i bond cashes, sono considerati validi per i ratio di vigilanza. L'obiettivo è quello di mettere da subito in regola UniCredit con i requisiti di Basilea 3, con un common equity tier 1 che già quest'anno dovrebbe attestarsi oltre il minimo del 9% preteso da una banca di interesse sistemico, per salire poi oltre il 10% nel 2015.

L'aumento di capitale sulla rampa di lancio sarà molto «diluitivo»: oltre il 60%. Degli azionisti stabili, un gruppo – tra cui le due maggiori Fondazioni, Crt e Cariverona e la Banca centrale della Libia – ha già fatto sapere formalmente o informalmente che sottoscriverà il 24% dell'aumento, facendo pressoché interamente la propria parte. Degli altri azionisti stabili è ragionevole supporre che – alle prese con i problemi in casa propria – diserterà FonSai, titolare di una quota inferiore all'1%. Il grosso, oltre la metà dell'importo, dovrà però essere assorbito dal mercato, dal retail cui fa capo circa il 20% del capitale, ma soprattutto dagli investitori istituzionali, che per l'80%-90% sono esteri e in questo momento poco propensi a investire in equity. Per questo l'operazione è stata proposta a forte sconto – il 43% rispetto al «Terp», il prezzo teorico post stacco del diritto calcolato sul prezzo ufficiale di Borsa del 3 gennaio scorso – prendendo a riferimento ricapitalizzazioni di analoga entità da parte di grandi banche europee nel periodo successivo al fallimento Lehman e tenendo conto della volatilità del titolo UniCredit. Logicamente, poiché le nuove azioni saranno il doppio di quelle esistenti e gli utili quindi dovranno essere spalmati sul triplo dei titoli, la Borsa ha schiacciato le quotazioni ancora prima della partenza dell'operazione.

L'effetto diluitivo è forte, ma non riguarda chi è già azionista e intenzionato a sottoscrivere: per invogliarlo a investire ancora sulla banca c'è la promessa di un rendimento a due cifre. Sulla base delle previsioni del piano industriale (utili e pay-out), il «dividend yield» delle nuove azioni – calcolato sul prezzo d'offerta di 1,943 euro – dovrebbe sfiorare il 15% nel 2013 e superare il 22% nel 2015. Per valutare se le prospettive sono credibili, sarà da monitorare il rispetto dei target sugli utili: 3,8 miliardi nel 2013, 6,5 miliardi nel 2015, rispetto al saldo 2010 di 1,3 miliardi. Il 2011 non fa testo, perché si chiuderà in rosso: UniCredit ne ha approfittato per far pulizia tra gli asset immateriali accumulati negli ultimi anni con le numerose acquisizioni, svalutando i goodwill per 8,7 miliardi (di cui 3,3 relativi alla rete retail in Italia) e abbassandoli agli 11,5 miliardi segnati nei conti al 30 settembre. Gli avviamenti delle banche in Ucraina e in Kazakhstan sono stati azzerati, così come i marchi Banca di Roma e Banco di Sicilia, Hvb e Bank Austria. Quel che resta, assicura UniCredit, non costituisce comunque una minaccia per la futura remunerazione del capitale. Che resta perciò legata al successo del piano impostato dall'ad Federico Ghizzoni.

Il piano si basa su assunzioni di contesto economico che potrebbero anche risultare ottimistiche se la recessione dovesse avvitarsi. È prevista infatti una crescita del Pil modesta in Italia (+0,2% nella media del biennio 2011-2012, +0,8% nel 2013-2015), moderata in Europa (+1,3% e +1,6% negli stessi periodi) e più sostenuta invece nel Centro-Est Europa (+3,7%, +4,1%). L'obiettivo è comunque quello di riportare in utile l'Italia e sfrondare all'estero, concentrandosi sull'attività di banca commerciale. L'Italia – che rappresenta il 37% dei risk weighted assets e il 33% dei depositi – è in rosso già dal 2010: sul mercato domestico c'è un problema di forbice dei tassi sfavorevole (non si è riusciti a compensare il veloce aumento del costo del funding) e l'attività è gravata da un costo del rischio elevato che infatti dai 168 punti base del 2010 dovrà essere dimezzato a 83 bp nel 2015. Come? Con la focalizzazione sui clienti «migliori» e un'azione più incisiva sul recupero crediti (i crediti deteriorati sul totale degli impieghi alla clientela, che erano il 3,2% nel 2008, sono lievitati al 6,9% nei primi nove mesi del 2011). Nel contempo occorrerà avviare azioni di repricing sugli attivi, in modo da «prezzare» meglio il rischio. In questo modo, nel 2015, le attività italiane dovrebbero essere in grado di contribuire a quasi il 30% del risultato netto operativo di gruppo. All'estero, dopo tanto shopping, c'è invece l'esigenza di concentrarsi sulle aree che meritino lo sforzo. Russia, Turchia, Repubblica Ceca, Polonia, che sono in crescita, resteranno core, mentre dovrà essere riconsiderata la presenza in altri Paesi – il Kazakhstan che è in rosso, i Paesi baltici e forse anche la Slovenia – dove l'assorbimento di risorse manageriali non vale il rischio. Se si riuscirà a cedere qualche provincia dell'impero, sarà tanto di guadagnato: nel piano infatti le poste straordinarie non sono incluse.

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