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Questo articolo è stato pubblicato il 30 gennaio 2012 alle ore 12:21.

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Cipro, l'isola delle nebbie. Singapore, la Svizzera d'Oriente. Cayman, la tortuga della finanza. Ma ai santuari classici, da sempre meta dei pellegrini del riciclaggio e dell'evasione fiscale, se ne sovrappongono altri. In Africa. Continente lontano dalle follie speculative della finanza derivata, afflitto da problemi più cogenti del mark to market. Un luogo in cui la parola sofferenza non evoca decreti ingiuntivi, ma genocidi e carestie. L'Africa terra di affari estremi e di estreme missioni.

Eppure, a pensarci bene, i primi a sbarcarci, nel 1955, sono stati gli uomini di Enrico Cuccia. Fu proprio Mediobanca a impiantare la sua prima branch africana. Precisamente in Liberia, a Monrovia. Che cosa ci facesse Mediobanca a Monrovia non è mai stato molto chiaro. La Tradevco, the Liberian trading and development bank, controllata al 60% dalla merchant bank milanese, doveva essere una base per le aziende italiane che dovevano esportare in Africa. Fiat, Necchi, Olivetti, e altre ancora. Una testa di ponte che approfittava del regime liberiano a fiscalità privilegiata (quasi tutti i panfili di lusso battevano la sua bandiera insieme a quella del Libano) che è stata smantellata solo nel 2003, con un epilogo rocambolesco: due funzionari di piazzetta Cuccia tratti in salvo dai caschi blu dell'Onu, in piena guerra civile. Solo questo dovrebbe essere sufficiente come effetto dissuasivo.

Ciononostante anche in Africa esistono paradisi fiscali e stati che aspirano a diventarlo. Un modo come un altro per attirare capitali. È l'obiettivo, in parte, raggiunto dal Ghana, per esempio. Descritto come uno dei regimi più stabili e democratici del continente, reduce da combattutissime elezioni che hanno dato origine a un passaggio di poteri insolitamente "morbido" per l'area. Non tutti erano d'accordo sulla trasformazione del paese del centro Africa in un centro finanziario off shore.

L'Ocse, organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, per esempio, sin dal 2010, si era espressa in termini severi: «L'ultima cosa di cui l'Africa ha bisogno è di un paradiso fiscale nel suo cuore». Si temeva, e non a torto, che la creazione di un «tax haven» potesse distrarre capitali da un'area del mondo già afflitta da enormi criticità. Per non parlare dei rischi connessi al riciclaggio dei proventi del narcotraffico internazionale. Ma il processo non si è interrotto e la «Tax haven» di fatto ora c'è ed è operativo. Anche se, per non incorrere, nel rischio di finire in black list, i passaggi più "garibaldini" sono stati smussati.

Anche al Kenia e al Togo che sembrava volessero unirsi al Ghana nella corsa all'off shore sono state riservate le medesime attenzioni, così sono andate ad aggiungersi alle già esistenti Free trade Zone di alcune aree dell'Angola. Per non andare ad aggiungersi alla lista dei classici «cattivi»: da Gibuti sino a Sant'Elena. Qualche esempio delle agevolazioni Ghanesi. Le imprese sono esentate dal pagamento delle imposte sui profitti per dieci anni trascorsi i quali le imposte non potranno superare l'8%.

Nessuna licenza è richiesta per le aziende che importano. Le formalità doganali sono ridotte al minimo. Per gli investimenti non esiste nessuna restrizione per il rimpatrio degli utili e dei dividendi, e neppure per la costituzione di società d'investimento. E a suggello di tutto ciò, come ulteriore polizza assicurativa, gli investimenti sono protetti da rischi di nazionalizzazione ed esproprio da parte di eventuali cambiamenti di governo.

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