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Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2012 alle ore 06:43.

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«Gli italiani preferiscono giocare un gioco più piccolo, pur di non perdere il controllo totale della propria azienda». Francesco Trapani, allora numero uno di Bulgari, spiegò così nel marzo del 2011 la mancata nascita del maxi-polo del lusso italiano in concorrenza con i gruppi francesi Lvmh e Ppr. Bulgari aveva cercato partner per crescere senza perdere il passaporto tricolore, poi però ha dovuto capitolare ed andare in sposa proprio Oltralpe a Lvmh. Una sorte toccata a molti. Sempre lo scorso anno in febbraio era stata la volta di Gianfranco Ferré, che dall'amministrazione straordinaria era stata ceduta con asta a Paris Group di Dubai, la holding che fa capo al magnate Abdulkader Sankari.
Gli esempi dell'ultimo decennio certo non mancano. Tre anni fa il cavaliere bianco che ha salvato Safilo, fondata nel 1934 da Guglielmo Tabacchi, è stato il gruppo olandese Hal Holding, oggi al 37,2% del capitale con la famiglia Tabacchi ridotta al 10%. E a comprare, quando non sono gruppi industriali internazionali, sono fondi di private equity. Come nel caso di Valentino Fashion Group, acquisito nel 2007 dal fondo paneuropeo Permira per l'80%, mentre il restante 20% è rimasto alla famiglia Marzotto. Andando indietro con gli anni, poi, nel 2001 era stata la maison Gucci, che nel 1999 aveva rilevato l'etichetta francese Yves Saint Lauren, a essere a sua volta comprata dalla francese Ppr (Pinault-Printemps-Redoute), che controlla anche l'italiana Bottega Veneta. E proprio Ppr ha rilevato nell'agosto scorso la Brioni per 350 milioni, ceduta dagli eredi delle famiglie dei fondatori delle famiglie Fonticoli e Savini.
Sempre lo scorso anno, Salvatore Ferragamo, in marzo prima della quotazione, decise di aprire il capitale al magnate di Hong Kong Peter Woo, fra gli uomini più ricchi al mondo (197esimo nella classifica Forbes) e storico partner della distribuzione in Cina dei prodotti della casa fiorentina. Woo, post quotazione in Borsa della griffe italiana, detiene ora il 6% del capitale.
Ma non sono solo i grandi marchi del lusso a far gola agli investitori stranieri e lo dimostra l'investimento della cinese Trendy international, gruppo dell'abbigliamento di medio calibro con 3.500 dipendenti e 1.500 negozi, nel capitale di Sixty Far East, controllata asiatica di Sixty, gruppo fashion con quartier generale a Chieti allora in fase di ristrutturazione. A sua volta Trendy è partecipato al 10% dal fondo di private equity L-Capital Asia, che fa capo al colosso del lusso francese Lvmh.
monica.dascenzo@ilsole24ore.com
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