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Questo articolo è stato pubblicato il 07 marzo 2012 alle ore 06:44.

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GINEVRA. Dal nostro inviato
Sergio Marchionne ha ribadito ieri a Ginevra che Fiat non chiuderà impianti in Italia e che la decisione sulla futura sede del gruppo non è ancora stata presa. Lo stesso Sergio Marchionne, in un'intervista al Detroit News, ha però lasciato intendere che il trasferimento della sede del gruppo negli Usa è qualcosa di più di una possibilità. A un giorno dalle polemiche sul presunto piano di chiusura di due stabilimenti, il manager italo-canadese torna dunque a far discutere. Qual è il vero Marchionne? Il discorso al Detroit News è insolitamente deciso, perfino per i suoi standard: «Questa macchina (intesa come Chrysler, ndr) è pronta ad accogliere il quartier generale quando vuole. Anzi, se io non avessi vincoli sarebbe già successo, perché sfortunatamente l'unico modo per trattare con gli italiani è portare via l'oca (la sede, ndr) e dire 'Ok, adesso sono un investitore straniero'. Un discorso del genere lo capirebbero».
In una recente intervista, Marchionne si è lamentato di essere definito «un uomo senza patria» e di non essere considerato abbastanza italiano. Visto così il rapporto di Fiat con il nostro Paese sembra – più che un impegno – una costrizione da cui liberarsi. In questo senso, quello di ridurre i vincoli con l'Italia, potrebbe essere interpretata anche la decisione, ribadita ieri, di «non chiedere aiuti al Governo italiano», nonostante Fiat «sia stata aiutata da numerosi altri Governi». Il motivo? «Il debito pubblico non lo consente e la gente non capirebbe». Fiat dice dunque no agli incentivi per sostenere le vendite di auto che sono invece stati chiesti dall'Unrae, l'associazione delle aziende importatrici: secondo Marchionne una misura come gli incentivi non fa che rinviare la soluzione al problema della sovracapacità. Tra i Paesi che hanno dato contributi alla Fiat in questo periodo c'è la Serbia, il cui presidente Boris Tadic era ieri qui al Salone per la presentazione della 500L, primo modello che uscirà (dal prossimo luglio) dalla rinnovata fabbrica di Kragujevac.
Ieri il presidente della Fiat John Elkann, che rappresenta la famiglia Agnelli maggiore azionista, ha ribadito a sua volta che il Lingotto «manterrà tutti gli impegni presi in Italia e in Europa». Proprio la congiuntura europea, che vede un mercato in netto calo a fronte di una forte ripresa di quello americano – non aiuta. Le difficoltà del mercato europeo – ha detto Marchionne – potrebbero anche impattare sui tempi della fusione Fiat-Chrysler: «La parte europea di Fiat è la più debole, e questo inciderà su quanto Fiat apporta alla fusione. Il problema è delicato, ma non abbiamo fretta sui tempi».
La soluzione al sottoutilizzo degli impianti italiani è, secondo Marchionne, quella di esportare verso gli Usa. Basterà? «Non lo so». Per il momento, comunque, il flusso di vetture sull'Atlantico va in senso opposto: Marchionne ha dato infatti ieri la conferma ufficiale che la Giulia Alfa Romeo (erede della 159 prodotta a Pomigliano) verrà prodotta negli Stati Uniti. «Abbiamo definito l'architettura della prossima grande Alfa; è un'architettura in comune con Chrysler, e la vettura sarà prodotta negli Usa», ha detto il manager. La decisione è legata al ritorno del marchio del Biscione sul mercato Usa, ha detto Marchionne al Detroit News: «Gli Stati Uniti saranno non solo un hub di produzione per l'Alfa, ma la base stessa sulla quale il marchio verrà rilanciato. Se lo avessimo fatto in Europa, avremmo avuto una base di mercato inferiore».
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