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Questo articolo è stato pubblicato il 18 marzo 2012 alle ore 15:06.

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Entrano sul mercato azionario ed escono dai tradizionali beni rifugio. La dinamica seguita dagli investitori internazionali nel corso delle ultime settimane sembra delinearsi con sempre maggiore chiarezza. Basti pensare che se venerdì i listini azionari hanno toccato i livelli più alti da otto mesi, Treasury americani e Bund tedeschi hanno registrato vendite massicce che hanno provocato violenti ribassi in termini di prezzi (e simmetricamente un forte rialzo dei rendimenti).

Sul fronte azionario venerdì scorso Piazza Affari ha toccato il massimo dallo scorso agosto. Merito soprattutto del rally messo a segno dal comparto bancario, salito del 18 per cento da inizio anno. Grazie a questo traino, l'indice Ftse Mib è salito del 13,2 per cento in due mesi e mezzo. Un rialzo analogo a quello di Parigi (+13,7%) e superiore a quello londinese (+7%). A fare ancora meglio, in Europa, è stato il Dax di Francoforte, che da gennaio ha ripreso più di un quinto del suo valore (+21%). E altrettanto buona è stata la performance di Wall Street: l'S&P 500 ha guadagnato l'11,6%, il Dow Jones il 17,3%. Che cosa spinga al rialzo i listini è noto: l'enorme massa di liquidità immessa nel sistema dalla Banca centrale europea (circa mille miliardi complessivi tra le due tranche di dicembre e febbraio) ha rimesso in moto il mercato interbancario dell'Eurozona e iniettato così un po' di ottimismo sulle prospettive economiche del Vecchio Continente, che pur rimangono critiche. Non solo: sfruttando il denaro a basso costo dell'Eurotower (al tasso rasoterra dell'1% per tre anni), gli istituti del Vecchio Continente hanno fatto incetta di obbligazioni governative dei paesi periferici, che fino ad allora erano state punite dalle svendite di chi temeva un collasso dell'Eurozona, calmierandone così i rendimenti.

La fuga dai beni rifugio
È forse anche sulla scia di questo rinnovato ottimismo che gli investitori stanno alleggerendo le loro posizioni sui tradizionali beni rifugio. Dal 6 marzo a venerdì il rendimento dei Treasury americani a 10 anni è passato dall'1,95% al 2,29% (+17%), un livello che non si vedeva dallo scorso ottobre. Analogamente, il ritorno del Bund tedesco sulla stessa scadenza è schizzato del 16%, dall'1,76% di lunedì al 2,04% di venerdì. Esattamente lo stesso balzo del rendimento dei Gilt, i titoli di Stato inglesi, i cui rendimenti sono volati dal 2,1% al 2,44%. E a registrare un calo (-3% in settimana a 1.660 dollari l'oncia) è anche il prezzo dell'oro stesso, il bene rifugio per eccellenza.

Fino alle scorse settimane, e a partire dallo scorso novembre, i rendimenti dei bond governativi dei paesi core, ritenuti più solidi, sono stati confinati ai minimi storici, tanto da diventare addirittura negativi sulle scadenze più vicine in alcuni frangenti. In quel momento, la convinzione diffusa sul mercato soprattutto per ciò che riguarda i titoli americani era che il massiccio riacquisto dei bond Usa (la cosiddetta operazion "Twist") e le prospettive di un quantitative easing avrebbero sostenuto la domanda di T-Bond, raffreddandone così i rendimenti. Il sell-off cui si è assistito nel corso dell'ultima settimana, invece, suggerisce che il mercato obbligazionario sta cambiando umore, almeno in apparenza. Del resto le notizie macro-economiche che arrivano dagli Stati Uniti (dai dati sull'occupazione a quelli sulle vendite record dei grandi magazzini) appaiono migliori delle attese. E se il trend continuasse, per la Fed, garantire una politica monetaria accomodante anche oltre giugno - come annunciato fino ad oggi - sarebbe un po' più difficile.

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