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Questo articolo è stato pubblicato il 05 aprile 2012 alle ore 06:44.

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TORINO. Dal nostro inviato
Essere un player globale – l'ambizione ribadita anche ieri dal presidente Fiat John Elkann e dall'ad Sergio Marchionne – non è uno slogan, è un'esigenza di business. La Chrysler ha portato in eredità un appesantimento del debito: l'indebitamento netto "industriale", 5,5 miliardi nel 2011, sarebbe stato solo di 2,4 miliardi senza Detroit. Ma conquistare il 58,5% di Chrysler è costato a Fiat appena 1,9 miliardi di dollari, «neppure confrontabile con il suo valore», come ha sottolineato Marchionne.
Ora la sfida è trasformare l'affare finanziario in un successo industriale in grado di assicurare un futuro a tutto il gruppo. Fiat, è stato detto, potrebbe abbandonare l'Italia, dove perde, per concentrarsi altrove, dove guadagna. Ma un gruppo che affonda le radici a Torino dal 1899, che ha avuto e ha il peso di Fiat nel tessuto industriale del Paese non se lo può permettere a cuor leggero. Restare sbilanciati sull'Europa però non avrebbe pagato. Dal Nord-Centro America arriva già oggi più della metà dell'utile operativo del gruppo e l'aggancio con Chrysler ha permesso di sviluppare sinergie per 1,4 miliardi di euro, di cui quasi un miliardo nel solo 2011. Tornare indietro non si può. Occorre invece accelerare.
«Contiamo di completare la metà del lavoro d'integrazione con Chrysler entro la fine di quest'anno», ha ribadito Marchionne. Ma l'assemblea che si è svolta ieri a Torino ha rimosso un ostacolo "tecnico" alla possibile fusione con Chrysler, con la trasformazione in ordinarie di tutte le altre categorie di azioni. La fusione («molto improbabile nel 2012» secondo l'ad) andrebbe ovviamente nella direzione di una più rapida osmosi. Tuttavia, secondo le stime degli analisti, la quota della famiglia Agnelli si diluirebbe intorno al 20% e poi c'è ancora la carta della finanza da giocare.
Fiat ha due opzioni per salire nel capitale di Chrysler dal 58,5% attuale. L'una è quella di rilevare il 41,5% di Veba, a un prezzo pari a 4,25 miliardi di dollari più il 9% di interessi annui a decorrere da inizio 2010, meno gli eventuali ricavi riscossi dal fondo dei sindacati nel frattempo. Se fosse spesa oggi, l'esborso sarebbe pari a più di 5 miliardi di dollari, che valorizzerebbe il 100% di Chrysler circa 12 miliardi di dollari. Opzione relativamente costosa se si considera che ai multipli di Borsa del settore Usa, l'intera Chrysler potrebbe valere tra 14 e 15 miliardi di dollari, o 8-9 miliardi di dollari dedotte le liabilities pensionistiche.
La seconda strada in questo momento sarebbe finanziariamente più allettante. A partire dal prossimo 1° luglio e fino al 30 giugno 2016, infatti, Fiat ha la possibilità di esercitare le call option che le consentirebbero ogni sei mesi di acquistare fino a un massimo del 20% del 40% della partecipazione Veba. Ogni sei mesi, perciò, è acquistabile fino a un massimo del 3,32% del capitale. A che prezzo? Se Chrysler fosse quotata farebbe testo il prezzo di Borsa. Se non fosse quotata si dovrebbe utilizzare il più basso tra il multiplo Fiat e la media dei multipli di Borsa di alcuni competitor, applicando il parametro all'Ebitda Chrysler degli ultimi quattro trimestri, meno il debito industriale netto. Utilizzando la formula sui dati 2011 – Ebitda Chrysler 4,8 miliardi di dollari, indebitamento netto industriale 2,9 (Us Gaap) e multiplo Ev/Ebitda di Fiat di 1,6 – si otterrebbe un valore dell'equity di Chrysler di appena 4,8 miliardi di dollari, assolutamente competitivo rispetto all'opzione tutto-subito e al valore presunto di Borsa. Il limite è che gli acquisti, per rilevare in tutto ancora un altro 16,6% del capitale, dovrebbero essere diluiti nell'arco di quattro anni. Intanto però la spesa per la prima rata, che permetterebbe a Fiat di salire al 61,8%, sarebbe intorno alla sopportabilissima cifra di 160 milioni di dollari. Marchionne ieri ha detto che non è stata presa alcuna decisione in merito, ma che l'opzione è «tecnicamente possibile». Non si vede perché rinunciarvi.
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