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Questo articolo è stato pubblicato il 10 maggio 2012 alle ore 08:06.

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Alla fine i nodi sono venuti al pettine. Tutti insieme. La Grecia post-voto minaccia di uscire dall'euro, le banche spagnole affogano nei crediti in sofferenza e necessitano di aiuto, gli strumenti di salvataggio in Europa restano troppo deboli, il divario economico tra gli Stati del Nord e del Sud è ormai abissale e il mondo politico del Vecchio continente brancola nel buio. «Il re è nudo», commenta il gestore di un fondo. I mercati finanziari lo sanno. E non perdono occasione per ribadirlo.

Così ieri le Borse hanno frenato, distinguendo però tra listino e listino: Madrid e Milano hanno perso rispettivamente il 2,77% e l'1,18%, mentre Parigi ha ceduto lo 0,20%, Londra lo 0,44, Wall Street lo 0,67% e Francoforte ha addirittura guadagnato lo 0,47%. Sui mercati obbligazionari la musica è stata uguale. I titoli di Stato italiani e spagnoli sono stati venduti, tanto che lo spread rispetto a quelli tedeschi è salito a 407 punti base per l'Italia (424 considerando i nuovi BTp decennali) e a 456 per quelli spagnoli. Anche l'euro si è indebolito, toccando il minimo degli ultimi tre mesi e mezzo a 1,2944 dollari.

Per contro gli investitori si sono gettati su ciò che percepiscono sicuro. A partire dai titoli di Stato tedeschi e americani: i primi hanno così aggiornato i minimi storici di rendimento, con i decennali scesi sotto quota 1,50%, mentre i secondi sono scesi sotto l'1,8% per la prima volta da febbraio. Anche il collocamento dei titoli quinquennali tedeschi, avvenuto ieri mattina, ha registrato tassi ai minimi: 0,56%. Insomma: gli investitori preferiscono acquistare titoli con rendimenti più bassi dell'inflazione, piuttosto che rischiare altrove.

I perché dell'effetto domino
Gli epicentri del nuovo terremoto finanziario sono due: Atene da un lato e Madrid dall'altro. In Grecia pesa l'incertezza politica: alle elezioni di domenica scorsa il 66% dei voti è andato a partiti contrari alle politiche di austerità imposte dall'Unione europea. Il leader del partito di sinistra anti-euro Alexis Tsipras – fino a ieri sera incaricato di formare un nuovo governo – continua a ripetere che gli accordi siglati con l'Europa sono nulli, ricevendo a distanza la risposta secca (e seccata) del ministro delle finanze tedesco: «I greci devono decidere se restare o meno nell'euro». Tsipras non è riuscito a formare un governo. Ma ugualmente l'ipotesi che Atene abbandoni la moneta unica conquista pareri favorevoli: Citigroup le assegna il 75% delle probabilità e anche Credit Suisse e Morgan Stanley la considerano possibile.

Questo potrebbe provocare un effetto contagio: se l'euro in Grecia venisse trasformato in dracme, gli investitori potrebbero pensare che la stessa cosa possa prima o poi accadere in Spagna o Portogallo. O in Italia. Non importa quanto sia realistica questa ipotesi, quello che conta è l'eventuale panico. E la possibile conseguenza: un aumento della fuga di capitali da questi Paesi. Questo aumenta le tensioni. Anche perché la pioggia greca cade dove è già bagnato.
In Spagna stanno infatti negli stessi giorni emergendo problemi sempre maggiori sul sistema bancario, zavorrato da 184 miliardi di euro di crediti immobiliari deteriorati.

Secondo gli analisti di Rbs, le banche iberiche avranno bisogno di raccogliere 68 miliardi di euro di nuovi capitali nei prossimi tre anni. Se questa stima sia corretta è difficile a dirsi, ma una cosa è certa: lo Stato dovrà fare la sua parte. Ieri sera il Governo di Madrid ha per esempio dovuto nazionalizzare Bankia. Ma il timore è che lo sforzo pubblico non finisca qui: fino ad oggi la crisi bancaria è costata alle casse pubbliche 100 miliardi di euro, ma gli esperti stimano che questa cifra possa arrivare a 150 miliardi totali. Si tratta del 15% del Pil spagnolo. È così che una grana privata diventa pubblica.

Gli altri problemi
Tutto questo si somma poi agli altri problemi di sempre. Da un lato l'economia europea è in recessione. In Spagna la disoccupazione è al 24,1% e in Italia è poco sotto il 10%. Le politiche fiscali sono restrittive ovunque. La politica monetaria della Bce è espansiva (i tassi ufficiali sono ai minimi storici), ma il beneficio non arriva dove c'è bisogno: a causa della crisi (e dell'allargamento dello spread) i tassi d'interesse in Italia e Spagna restano artificialmente alti, annullando in questi paesi buona parte della politica monetaria. I meccanismi di salvataggio fino ad oggi realizzati (i fondi salva-Stati) sono insufficienti e la politica europea continua a dimostrarsi litigiosa e incapace di avere una visione. I mercati sperano solo che Mario Draghi, presidente della Bce, estragga un nuovo coniglio dal cilindro, in grado di "comprare" ancora qualche mese di tranquillità finanziaria: la speranza è che, se questo accadesse, il tempo non venga sprecato. Come sempre accade.
m.longo@ilsole24ore.com

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