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Questo articolo è stato pubblicato il 10 maggio 2012 alle ore 06:44.

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Il Montepaschi "strapagò" AntonVeneta nel blitz del novembre 2007? Poco più di 30 mesi prima, il colosso olandese Abn Amro aveva lanciato un'Opa interamente per cassa sull'87% della banca padovana valutandola in tutto 7,2 miliardi di euro. Al termine di un lungo scontro al calor bianco con la Popolare Italiana di Gianpiero Fiorani (appoggiata dal Governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio), l'Opa conclusiva di Abn sul flottante AntonVeneta, all'inizio del 2006, ne aveva ulteriormente ritoccato il valore verso gli 8 miliardi. L'esborso e la valutazione (superiore alle 2,5 volte il "valore di libro" di AntonVeneta) fin dall'inizio avevano fatto alzare qualche sopracciglio nel board olandese, che aveva dovuto approvare un aumento di capitale da 4 miliardi. Ma il Ceo di Abn, Rijlkman Groenink, aveva sempre tenuto il punto (supportato anche dai grandi media internazionali, ostili al protezionismo della Banca d'Italia) e aveva difeso la strategicità dell'investimento in Italia: un'espansione crossborder avviata già negli anni '90, mirando una piccola Popolare nel Nordest, rapidamente diventata un player nazionale con le aggregazioni di Bna e Interbanca.
Resta però un fatto che a metà 2007, con la grande crisi bancaria ormai alle porte, Abn non esisteva già più. Dopo l'operazione AntonVeneta schricchiolava. A farne un boccone – con una maxi-Opa da 70 miliardi, per gran parte cash – furono tre colossi europei, poi a loro volta colpiti duramente dalla crisi: la britannica Royal Bank of Scotland (oggi nazionalizzata all'84%), Fortis (poi salvata dai governo olandese e smembrata) e Santander, cui l'Eba a fine 2011 ha certificato il più elevato deficit patrimoniale nell'Eurozona (15 miliardi). A fine 2007, comunque, il "gioiello italiano", pagato già da Abn a prezzo da amatore, viene assegnato al gruppo iberico e rapidamente messo in vendita: neppure Emilio Botìn, da sempre attentissimo allo scacchiere italiano, giudica più strategica l'AntonVeneta.
A Siena, invece, appare subito un'insperata opportunità di crescere senza diluire il controllo assoluto della Fondazione sul Monte, giudicato sempre imprescindibile. Per di più su AntonVeneta ha acceso i fari BnpParibas, che si era già aggiudicata la Bnl al termine della bollente estate 2005: neppure la nuova Banca d'Italia di Mario Draghi, in fondo, avrebbe visto di buon occhio un bis estero.
Mps, d'altronde, morde il freno. Dopo la cura dimagrante al Nord imposta dalla Banca d'Italia nei primi anni '90 (cessioni di Credito lombardo e Credito commerciale) Siena insegue i campioni nazionali UniCredit e Intesa Sanpaolo: anche per questo rompe gli indugi con un annuncio da 9,3 miliardi (saliti poi a 10 nel documento informativo del giugno 2008) e lancia un maxi-aumento.
La rincorsa è peraltro già cominciata da tempo, secondo uno schema preciso. Nel '98 il Monte sborsa circa 1,5 miliardi in contanti per il 70% della Banca Agricola Mantovana, valutandola più di 3 volte il patrimonio netto (il "tesoretto" della futura "razza padana" in pre-mobilitazione su Telecom si forma allora). Ma Rocca Salimbeni riconosce un prezzo relativo ancora superiore (4,4 volte il patrimonio netto, circa 1,3 miliardi) a fine '99 per la Banca del Salento: battendo all'ultimo rilancio d'asta Sanpaolo-Imi e pagando peraltro prevalentemente in azioni i soci pugliesi (tra cui Vincenzo De Bustis, arruolato come direttore generale dello stesso Mps).
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