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Questo articolo è stato pubblicato il 27 maggio 2012 alle ore 08:14.

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Laura Martin, un'analista della banca d'investimento Needham, assicura che Facebook è un «buy». A suo giudizio, la società reduce dalla più attesa e disastrosa Ipo della storia – collocamento a 38 dollari, quotazione a 31 dopo cinque sedute al Nasdaq – varrebbe 40 dollari ad azione. «In realtà, Facebook ci ha già guadagnato – rincara Jay Yarow di Business Insider – perché ora ha 16 miliardi in cassa e le risorse per diventare un business da 300 miliardi».

Ma Facebook ci ha già guadagnato anche perché i primi dipendenti del social network - assegnatari di robusti pacchetti azionari – hanno avuto il modo di monetizzare ben prima che la società andasse sul mercato. Verrebbe da dire: i collocamenti azionari non sono più quelli di una volta.

Nel 2004 – l'anno dell'Ipo di Google – è spuntato silenziosamente SecondMarket, un mercato elettronico che, nonostante sia sul web, è per sua natura elitario: è aperto solo agli investitori istituzionali e a quelli "accreditati", ovvero coloro che dispongono almeno di un milione di dollari. Ma quattro anni più tardi, dopo aver allargato i suoi confini al debito, alle ristrutturazioni aziendali e perfino alle Cdo (le collateralized debt obligations, che furono al cuore della tempesta finanziaria del 2008), SecondMarket è diventato – insieme al rivale SharesPost – il principale mercato per il private placement: ovvero per lo scambio di azioni fuori dal mercato.

La fulminea consacrazione di questo nuovo dominio su una nicchia inesplorata della finanza, è arrivata proprio da Facebook. A partire dal 2008, le transazioni degli insider di Facebook su SecondMarket sono cresciute a vista d'occhio, così come il prezzo: se da allora a oggi il titolo Apple è salito del 200% al Nasdaq, le azioni Facebook hanno segnato un +1.200%, che la dice lunga sul fatto che i collocamenti non siano più quelli di una volta. La maggior parte dei primi 20 dipendenti di Facebook se ne sono già andati, sono diventati milionari vendendo le azioni ben prima dell'Ipo e sono investitori in alcune decine di startup.

Un'interessante diaspora tecnologica, da questo punto di vista. Ma anche una sgradevole diaspora di capital gain: nei quattro anni durante i quali il prezzo di una Facebook semiquotata è cresciuto di 13 volte, la domanda di titoli si è parzialmente sgonfiata, presumibilmente a danno dei piccoli investitori quando l'Ipo è scattata per davvero. Certo, in questa privata redistribuzione della ricchezza, qualcuno che esagera c'è sempre: a febbraio, su SharesPost, è stato scambiato un pacco di azioni Facebook a 55 dollari.

Dunque Google non sembra essere riuscita a imporre il suo modello di Ipo "democratica": nel 2004, ai tempi della quotazione, aveva istituito una piattaforma di asta online per determinare il prezzo, che stabilì una capitalizzazione iniziale di 23 miliardi, meno di un quarto di quella – un tantino ambiziosa – di Facebook.

L'anno scorso, un terzo dei ricavi di SecondMarket (che ha sede a New York, a pochi passi da Wall Street) sono derivati dalle transazioni su Facebook. Adesso che il social network è nel dominio pubblico, non più riservato agli investitori "accreditati", c'è già chi profetizza la sua crisi. La Bloomberg riporta che Barry Silbert, il 36enne fondatore, si prepara a lanciare fondi su vino, arte, diamanti e proprietà intellettuale. Però, anche se su scala minore, le opportunità non dovrebbero mancargli.

Sulla rivale SharesPost, che invece sta di casa nella Silicon Valley, i soliti "accreditati" possono comprare azioni di Kayak, Quora, Dropbox, Pinterest: tutti nomi noti del web, seppur con un incerto futuro reddituale. Ma anche le azioni Square, un servizio di pagamento elettronico che sta prendendo piede. Nonché di decine di società dell'energia pulita, o del commercio. Mentre su SecondMarket – fra le altre – c'è Twitter, il possibile prossimo titolo capace di scaldare i portafogli.

Se i collocamenti azionari non saranno più quelli di una volta, dipende dal futuro delle piattaforme per il private placement. Le quali potrebbero ricevere una spinta dal Jobs Act attualmente in esame al Congresso, che punta a facilitare l'accesso agli investimenti da parte delle startup. Per SharePost e SecondMarket sembra esserci un futuro, anche dopo Facebook.
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