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Questo articolo è stato pubblicato il 05 giugno 2012 alle ore 12:17.

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Antoine Bernheim (Ansa)Antoine Bernheim (Ansa)

«Quando si lavora una vita, come ho fatto io, se ci si ferma si muore», aveva detto in una recente intervista Antoine Bernheim. Era l'agosto scorso, il banchiere francese era ancora profondamente amareggiato per la destituzione dalla presidenza di Generali, ma continuava a sedere nei consigli di Lvmh, di Bolloré, di Havas. Posti che nei mesi scorsi è stato in qualche modo costretto a lasciare.

Contro la sua volontà, Bernheim si è fermato. Ed è morto. Ieri mattina nella sua casa parigina, a tre mesi dal compimento degli 88 anni.
Che abbia lavorato una vita - quello che veniva abitualmente chiamato «il padrino del capitalismo francese», il «Talleyrand degli affari» - non c'è alcun dubbio. E a che livello!

Di famiglia ebraica, figlio di due genitori deportati e morti ad Auschwitz, laureato in giurisprudenza (con specializzazione in diritto privato e pubblico) e una seconda laurea in Scienze, a 43 anni Bernheim diventa socio della banca Lazard, dove rimane fino al 2005 e da dove consente, favorisce, accompagna la costruzione di alcuni dei più grandi patrimoni francesi: quelli, tra gli altri, di Vincent Bolloré, di François Pinault (Ppr), di Bernard Arnault, l'uomo che grazie a lui ha creato il gruppo leader mondiale del lusso. I tre moschettieri dell'aggressivo capitalismo d'Oltralpe.

«Faiseur de rois» a Parigi, Bernheim diventa ben presto un attore di primo piano anche sulla scena della finanza italiana. Nel 1973 entra nel consiglio di amministrazione di Generali, di cui diventa vicepresidente nel 1990 e poi presidente dal 1995 al 1999.

Grazie al sostegno di Bolloré - che detiene il 5% di Mediobanca, principale azionista della compagnia triestina - torna alla guida del gruppo assicurativo tre anni dopo, nel 2002. Sono i tempi in cui Bolloré dichiara: «In Italia non sono che il suo chauffeur».

Eppure proprio dall'imprenditore bretone, due anni fa, arriva il via libera al siluramento di Bernheim. Già nel 2007 c'erano state le prime avvisaglie di quanto sarebbe poi accaduto. Quando cioè il fondo Algebris aveva posto il problema: è l'ora di finirla con un presidente troppo anziano, «che non parla né l'inglese né l'italiano».

Bernheim, capace di ire furibonde ma uomo di gran classe, non l'aveva presa bene e non era riuscito a gestire la sconfitta con eleganza. Ha passato gli ultimi due anni a recriminare e ad accusare Bolloré di tradimento. Oltre a far causa a Generali (poi ritirata, aveva chiesto 20 milioni di danno dopo la buonuscita da 16 e rotti milioni concessa a Cesare Geronzi per appena più di un anno di presidenza).

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