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Questo articolo è stato pubblicato il 06 giugno 2012 alle ore 06:42.

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La sua è stata una lunga liaison con l'Italia iniziata durante la guerra, a Grenoble, dove il futuro banchiere era entrato in contatto con un certo capitano Mascheroni che comandava la guarnigione italiana d'occupazione. La sera i francesi preparavano la lista degli ebrei da deportare e, nella notte, Mascheroni li liberava. «È stato l'inizio di una grande riconoscenza verso l'Italia». Fu lo stesso Antoine Bernhaim, morto ieri a Parigi all'età di 87 anni, a raccontare questo episodio nel 2008 per spiegare l'affetto che nutriva verso un paese che sentiva il suo. «Mi dicono che sono più italiano degli italiani», raccontava spesso. E nella penisola la «sua famiglia» erano le Generali dove ha trascorso 40 anni della sua carriera professionale. La riconoscenza, per la verità, non rientrava tra le sue caratteristiche principali. Piuttosto la pretendeva nei suoi confronti. E si adirava moltissimo quando, a suo giudizio, non gli veniva accordata. Cioè quando non era più al centro degli eventi.
Antoine Bernheim, tra gli anni ottanta e novanta dello scorso secolo, fu veramente centrale nella storia delle Generali con cui entrò in contatto attraverso la banca Lazard, l'altro pilastro della sua vita professionale Quello dei Lazard è un mondo particolarissimo. «Banchieri di sinistra, radicalsocialisti, patrioti, anticlericali, visceralmente anticomunisti» li ha dipinti Anne Sabouret ("MM Lazard Frerés et Cie. Une saga de la fortune"). E, tra questi facevano spicco André Meyer e, appunto, Bernheim. Entrambi amici del fondatore di Mediobanca Enrico Cuccia.
La vicenda che illumina il capitalismo continentale di quel tempo, e che ebbe Bernheim tra i protagonisti, è la battaglia che Generali ingaggiò in terra di Francia per conquistare la Compagnie du Midi, gruppo assicurativo quotato in Borsa alla metà delle risorse che aveva in pancia. L'intuizione degli assicuratori italiani era giusta e l'operazione brillante ma si impantanò molto presto per l'ostilità della finanza francese. Ed anche per alcune incertezze del loro advisor del tempo, proprio la Lazard. Nello stallo si inserì con tempismo la giovane ed aggressiva creatura di Claude Bebear, Axa, la quale giunse a fondersi con la Compagnie du Midi imprigionando, nei fatti, la quota di Generali. Anche per uscire da quel guado il Leone, nel 1995, si affido a Bernheim chiamandolo alla presidenza dopo aver esiliato Alfonso Desiata (contrario all'operazione del "Midi") nella controllata Alleanza. E che fece Bernheim? Scongelò quella quota inattiva in una partecipazione liquida dell'11%, a quel punto di minoranza, che fu in breve venduta (1996). Generali incassò una forte plusvalenza che le servì, successivamente, per crescere in Franca e Germania. Ma Axa spiccò il volo per divenire il maggiore assicuratore del pianeta, senza più quello scomodo intruso. Non erano possibili collaborazioni, disse al tempo Bernheim. E Generali «ha la vocazione dell'assicuratore, non dell'azionista». Dieci anni più tardi, proprio sulle colonne del "Sole 24 Ore" , aveva però cambiato idea. «Per motivi che non ho mai capito mi fecero vendere la partecipazione. Ritengo sia stato un errore. Diversamente avremmo beneficiato della crescita del gruppo francese e influenzato le sue scelte». Al tempo della vendita il presidente francese del Leone stava anche nel board di Axa dove rimase successivamente. Una situazione in conflitto d'interesse che oggi non sarebbe consentita (almeno in Italia). Come quella che, negli stessi anni, portò la malandata compagnia transalpina La France (del gruppo Lazard) nelle braccia del Leone. "Parti correlate", si chiamano oggi. Ma nei salotti del tempo l'espressione non era conosciuta. Fu uno dei tanti ribaltoni imposti da Mediobanca a dimissionare Bernheim dalla guida della compagnia nel 1999 ed un altro, nel 2002, a riportarlo in sella. Grazie anche all'influenza raggiunta a Piazzetta Cuccia da Vincent Bollorè che ieri ha espresso «profonda emozione» per la sua scomparsa. La sua nuova stagione nel Leone, felice, si è caratterizzata per l'armonia del suo rapporto con i manager esecutivi (Giovanni Perissinotto e Sergio Balbinot) cui spesso ha fatto da parafulmine nei confronti di Mediobanca e delle insidie della politica. Ma era pur sempre lui che si considerava il "capoazienda" anche quando non poteva più esserlo. Alla mancata riconferma (2010) recalcitrò ancora. «Non date mai le dimissioni - disse una volta - c'è il rischio che le accettino».
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