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Questo articolo è stato pubblicato il 02 agosto 2012 alle ore 06:42.
CANBERRA
I giganti minerari australiani, alle prese con il rallentamento dell'economia cinese e con la discesa dei prezzi delle commodities, stanno cominciano a mettere mano ai costi. Dopo i licenziamenti avviati un mese fa nella miniera di carbone di Clermont, Rio Tinto intende ora chiudere l'ufficio di Sydney e ridimensionare quello di Melbourne, in cui lavorano 240 persone. L'obiettivo, ha spiegato il managing director David Peever, è «rafforzare il business in modo da poter affrontare tempi difficili».
La rivale Bhp Billiton – che in maggio aveva congelato il piano quinquennale di investimenti da 80 miliardi di dollari – ha intanto annunciato di avere avviato anche una "spending review", per identificare le aree di possibile risparmio. «Di fronte all'incremento dei costi e al declino dei prezzi delle materie prime – afferma un comunicato del gruppo – continueremo a focalizzarci sulla riduzione delle nostre spese generali, dei costi operativi e degli esborsi non essenziali».
La mineraria, che nel bilancio atteso per il 22 agosto dovrebbe evidenziare il primo calo dei profitti annuali dal 2008, a dicembre dovrà decidere se dare via libera a tre maxi-investimenti che aveva inizialmente programmato di realizzare entro il 2015: lo sviluppo di una miniera canadese di potassio, l'ampliamento di un porto per l'export di minerale di ferro nel Western Australia e, sempre in patria, l'espansione dell'enorme deposito di uranio e rame di Olympic Dam. Di quest'ultimo progetto, il più costoso, con un budget di almeno 30 miliardi di $, il rinvio sarebbe ormai certo, scrive il quotidiano The Australian: da documenti riservati risulterebbe che Bhp intende far slittare la decisione di investimento al 2014.
Almeno per il momento, le grandi minerarie non hanno segnalato l'intenzione di frenare lo sviluppo della produzione di minerale di ferro. Proprio per questa commodity, la principale voce di esportazione dell'Australia, l'allarme è tuttavia elevato: il prezzo sul mercato spot cinese, che fa da benchmark, è sceso sotto 117 $ per tonnellata, il minimo da due anni e mezzo. In luglio il ribasso è stato del 17%, contro una riduzione di appena il 2,8% per l'indice Lmex, che riflette l'andamento dei metalli non ferrosi al London Metals Exchange.
In Borsa è stata una carneficina per le minerarie australiane. Rio Tinto il mese scorso ha lasciato sul terreno l'8% del suo valore, toccando i minimi da tre anni. Peggio ancora è andata a Fortescue Metals: -15%, a fronte di un rialzo del 2,8% per l'indice Asx-200.
La situazione sembra particolarmente difficile per la società di Andrew "Twiggy" Forrest, che all'inizio di luglio aveva confermato di voler triplicare l'output di minerali ferrosi a 155 milioni di tonnellate entro luglio 2013: un obiettivo ambizioso che, per stessa ammissione dell'azienda, ha già bruciato 600 milioni di dollari. Secondo JpMorgan il gruppo sarà costretto a indebitarsi per affrontare le conseguenze della caduta dei prezzi e potrebbe anche dover vendere asset non-core o azioni della società.
JpMorgan prevede anche che il prezzo dei minerali ferrosi sarà di 135 $/tonn, rispetto a una precedente previsione di 150 $, una valutazione giudicata da molti ottimistica, considerati gli ultimi movimenti dei prezzi. Caduto dai massimi di 191 $/tonn. raggiunti a febbraio del 2011, il prezzo dei minerali ferrosi dovrebbe invece stabilizzarsi intorno a 120 $ per James White, analista di Colonial First State Global Asset Management.
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