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Questo articolo è stato pubblicato il 19 ottobre 2012 alle ore 06:43.

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La prima traccia risale agli inizi del gennaio 1348, quando il frate Orsino di Mino Vincenti scrive poche righe iniziali del Libro del Debito dell'Ospedale Santa Maria della Scala. Già, a pochi mesi dallo scoppio della peste nera che decimerà la popolazione, si inagurava un registo di «dipositi, acomandiglie o preste». Il Monte dei Paschi, quello vero e arrivato fino ad oggi, sarebbe nato solo nel 1472. Storie ordinarie di «banchi» che in terra di Toscana hanno segnato i destini di città e repubbliche, e che a Siena hanno sempre trovato un sintesi emblematica, ora messa duramente in discussione. I tempi cambiano: nel Trecento - come racconta un libro appena uscito di Gabriella Piccinni - era il Comune che metteva cinquemila fiorini: ora l'azionista "pubblico" fa il contrario e riduce drasticamente la sua partecipazione e in prospettiva lo farà sempre di più. «É una giornata nera» ammette Roberto Barzanti, scrittore e storico, che fu sindaco della città a inizio degli anni '70, appena trentenne. «Ha ragione l'ad Viola, sono errati sia tempistica che valutazione» chiosa Barzanti, che ricorda come la «svolta» della banca sia stata compiuta già da qualche tempo, ma il percorso ora deve essere accelerato. In effetti da quando l'Eba chiese una ulteriore ricapitalizzazione a Siena è iniziato un percorso nuovo, vissuto dalla città con grande attenzione ma anche apprensione, fatto anche di stop improvvisi. Barzanti è d'accordo con Profumo quando ricorda l'eccessivo potere goduto in passato dal sindacato, potere (o presenza) accentuata dal fatto che il Comune per oltre 20 anni è stato guidato da tre sindaci - molto differenti l'uno dall'altro - la cui carriera politica però era iniziata proprio all'interno del sindacato. «L'errore storico è stato quello di un eccessivo aggancio tra banca e fondazione e il mantenimento a tutti costi della maggioranza: non si tratta di imputare delle colpe, ora quello che veramente serve è sveltire i piani varati e portare la banca in una zona di maggiore tranquillità». E ricorda come nel 1972 l'allora provveditore Pagliazzi - figura tuttora ricordata con grande rispetto - gli disse che per gestire la complicata distribuzione degli utili alla città era necessaria una fondazione.
Il tema della senesità in effetti ha accompagnato tutto il percorso dell'ultimo ventennio, dal varo della legge Amato alla trasformazione in spa, avversata in ogni modo e alla fine imposta da governo e Bankitalia. Ora il quadro è completamente cambiato, sia per la crisi finanziaria sia all'interno della città, specie per i due azionisti della Fondazione: il Comune è comissariato e la Provincia non conosce bene ancora il suo destino. A questo stallo si aggiungo altre situazioni tutt'altro che facili (compreso il Santa Maria della Scala) che, assieme all'inchiesta della magistratura sull'acquisto di Antonveneta, non contribuiscono certo a dare una spinta positiva. Quello che emerge, sentendo esponenti della società civile, è più uno stordimento che una sentimento di rabbia: «Ci vuole una soprassalto di spirito pubblico, che ha fatto da modello dei comuni medioevali» aggiuge l'ex sindaco. Del resto - si ricorda tra le antiche strade del centro storico innervato dalla vita di contrada, dove la parola "spazzatura" neppure si pronuncia - il Monte un secolo e mezzo dopo la fondazione andò in crisi, per poi rinascere a nuova vita nel 1625. Una storia esemplare, e la storia da queste parti è pane quotidiano.
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