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Questo articolo è stato pubblicato il 22 novembre 2012 alle ore 06:42.

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Dalle miniere alle gioiellerie. Gemfields, uno dei maggiori produttori mondiali di smeraldi, rileverà il celebre marchio Fabergé, fondato nel 1842 dall'orafo di corte degli zar russi, che per i Romanov creò le leggendarie uova d'oro, riccamente decorate di pietre preziose e smalti colorati. Una mossa che riflette il cammino percorso dalla canadese Henry Winston, che già da anni ha affiancato la vendita di gioielli all'estrazione di diamanti e che proprio la settimana scorsa ha rilevato da Bhp Billiton la miniera Ekati.
L'operazione avverrà tutta "in famiglia": sia Fabergé che, indirettamente, Gemfields fanno capo infatti alla Pallinghurst Resources, società dell'ex ceo di Bhp Brian Gilbertson. Quest'ultima nel 2007 aveva rilevato da Unilever la Fabergé, che era rimasta inattiva per decenni, rilanciandola nel 2009 con la prima collezione di gioielli dal 1917, anno in cui la società era stata travolta dalla Rivoluzione russa. Il maggiore azionista di Gemfields per contro, con il 63%, è la Rox, di cui oltre alla Pallinghurst fanno parte altri due investitori e che dopo l'acquisto di Fabergé verrà sciolta. In seguito alla transazione – che Gemfields pagherà con azioni proprie di nuova emissione, per un valore di 142 milioni di dollari – la società di Gilbertson avrà il 49,3% del nuovo gruppo.
«Dal punto di vista del business l'operazione ha un grande significato», ha commentato Ian Harebottle, ceo di Gemfields. La società quotata a Londra – che controlla la maggiore miniera di smeraldi nel mondo, Kagem in Zambia, e sta sviluppando interessanti depositi di rubini in Mozambico – è convinta che il controllo di Fabergé le consentirà di «influenzare il posizionamento del prodotto» e di rafforzare la sua posizione sul mercato delle gemme colorate, che gode di un momento particolarmente favorevole: smeraldi, rubini e zaffiri, un po' meno cari dei diamanti, stanno vendendo molto bene in tempi di crisi. Fabergé, da parte sua, sarà avvantaggiata dalla sicurezza di approvvigionamenti costanti, di gemme di alta qualità e garantite sotto il profilo etico.
Esigenze analoghe hanno spinto altri celebri marchi ad "avvicinare" la miniera alla gioielleria. Il colosso dei diamanti De Beers, oltre a commercializzare in proprio le pietre, dal 2001 è entrata nel segmento della vendita di gioielli al dettaglio con la De Beers Diamond Jewellers, joint-venture col gruppo francese Lvmh.
Tiffany & Co. – pur non avendo rilevato, almeno per ora, nessuna miniera – sta invece intensificando da un paio d'anni le collaborazioni con società estrattive, finanziando lo sviluppo di nuovi depositi di diamanti in cambio di un diritto di prelazione sulla futura produzione. La settimana scorsa il gruppo ha annunciato ben due nuovi accordi di questo tipo, con Diamcor Mining e DiamondCorp, cui ha prestato rispettivamente 4 e 6 milioni di $ per sviluppare due progetti in Sudafrica (Krone-Endora e Lace). La strategia di Tiffany, aveva spiegato circa un anno fa il ceo Michael Kowalski, è dettata dalla forte crescita della domanda di diamanti in Asia e dalla difficoltà nell'individuare nuove miniere: «Stiamo fronteggiando una situazione di assoluta scarsità, che è particolarmente accentuata per le gemme di maggiore qualità, dunque siamo alla costante ricerca di nuove fonti di approvvigionamento».
Nel 2012, secondo De Beers, la domanda di diamanti potrebbe rallentare la crescita al 3-5%, dopo il balzo record del 10% registrato del 2011. Ma in prospettiva gli analisti sono unanimi nel ritenere che i consumi torneranno a correre, al traino della Cina e di altri Paesi emergenti.
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