Cipro, o per esser più precisi la parte greca dell'isola, è stata per molto tempo considerata "paradiso fiscale". Solo nel 2009 il Paese è uscito dalla lista nera dell'Ocse, ciononostante è stato davvero consistente l'afflusso di capitali stranieri: il 37% dei depositi presso le banche cipriote è straniero e il 30% proviene da paesi extra-Ue, in particolare dalla Russia; e non a caso Mosca si oppone alle misure draconiane indicate dalle istituzioni internazionali. Ciò ha riempito i forzieri ciprioti oltremisura: nelle banche sono presenti asset per 126 miliardi di euro, pari a sette volte il Pil annuo del paese (in quelle italiane c'è denaro pari a tre volte il Pil nazionale).

Ciò ha portato negli anni a rendere vulnerabili i forzieri degli istituti di credito ciprioti nei confronti di un prelievo straordinario ad opera dello Stato, che è stato preferito ad altri interventi come l'haircut (il taglio del valore delle obbligazioni governative). Un prelievo straordinario che avrà conseguenze pesanti – è facile prevederlo – sull'abitudine di nascondere a Cipro il proprio denaro, sottraendolo al fisco di casa propria. Perché alla lunga, vista la globalità della finanza, gli stessi paradisi fiscali cadono vittima del loro successo e della propria storia. E ciò che non viene pagato prima in termini fiscali, si tramuta in un conto assai salato, che deve essere saldato successivamente.

Sottotraccia, dietro al piano europeo c'è il tentativo di Bruxelles di arginare l'anomalia di un paese comunitario che applica aliquote fiscali molto difformi da quelle degli altri membri Ue.