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Questo articolo è stato pubblicato il 10 giugno 2013 alle ore 22:14.
Parrebbe che il non disprezzabile salto dell'euro o, meglio, lo scivolone del dollaro, nel pomeriggio di lunedì, sia stato causato dalle parole di James Bullard, presidente della Fed di S. Louis. Conosciuto per essere una delle più candide "colombe" del Fomc, Bullard ha ripetuto quanto va dicendo da sempre: ossia che non è il caso di ridurre il ritmo dell'attuale quantitative easing, poiché, se l'occupazione è sì leggermente migliorata, l'inflazione è tuttavia scesa (+0,7% annuo, se la si misura con il metro del Pce, caro alla Fed). La banca centrale può dunque tranquillamente continuare il suo «aggressivo programma» di acquisto titoli per 85 miliardi di $ al mese.
Che il dollaro, di conseguenza, s'indebolisca non è una notizia, perché è scritto nella politica monetaria ultraespansiva che le cose vadano così. La notizia è che Wall Street non s'è eccitata per nulla; anzi è leggermente peggiorata, chiudendo invariata. E il rendimento del Treasury decennale, al 2,22%, è salito al massimo dall'aprile 2012. Forse che le lusinghe dei QE hanno smesso di funzionare sui mercati finanziari (valutari esclusi)? La sensazione che un significativo cambio di mentalità sia avvenuto tra gli investitori internazionali s'è avvertita già da qualche seduta e la scorsa settimana, a deludenti dati macroeconomici americani, non s'è associato un rialzo della borsa, come avrebbe suggerito la logica degli ultimi mesi. Le proprietà taumaturgiche della politica monetaria, per azioni e obbligazioni comincerebbero ad essere messe in discussione.
Una conferma indiretta la s'è avuta da Standard & Poor's, l'agenzia di rating che, dopo aver migliorato lo scenario per l'economia Usa (l'outlook, da negativo, è diventato stabile), s'è lasciata andare a una dichiarazione all'apparenza del tutto ingenua. Se la Fed decidesse di fermare gli acquisti di titoli (Qe), sarebbe cosa «assai benvenuta», perché «segno di un'economia in ripresa», ha dichiarato John Chambers, che dell'agenzia è il capo per la sezione "rating sovrani". Siccome l'affermazione suonerebbe come una ovvietà profonda, si ha l'impressione che S&P non stia in realtà guardando con grande simpatia al Qe della Fed. Non a caso, Chambers si affretta ad aggiungere che la cessazione di questi eccezionali stimoli monetari creerebbe solo una piccola minaccia al dollaro che resterebbe comunque forte, per essere la valuta di riserva per eccellenza. Se non fa male al dollaro, tale eventualità non dovrebbe nemmeno danneggiare Wall Street, a patto che la sbornia dei quantitative easing non abbia mandato in bolla anche Borsa: eventualità che, al momento, parrebbe esclusa.
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