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Questo articolo è stato pubblicato il 28 giugno 2013 alle ore 06:47.

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Non accenna a fermarsi la corsa al ribasso dell'oro. Dopo aver chiuso la giornata di contrattazioni in calo di 18,20 dollari, a quota 1211,60 dollari l'oncia, il metallo prezioso è calato ulteriormente nelle contrattazioni elettroniche del dopo-mercato. Il contratto con consegna ad agosto, il più scambiato, è sceso per la prima volta dall'agosto del 2010 sotto la soglia dei 1200 dollari l'oncia, toccando un minimo di 1198 dollari prima di risalire lievemente. Con la flessione di ieri, l'oro ha già perso il 28% del valore dall'inizio dell'anno mettendo fine a una cavalcata durata ben 11 anni e accentuatasi dopo il 2008, quando milioni di investitori si rifugiarono sul lingotto per la sua caratteristica di bene rifugio per eccellenza.

Sembrano lontanissimi, eppure si tratta solo di tre anni fa, i tempi in cui il prezzo dell'oro cresceva velocemente e banche d'affari e investitori istituzionali si affannavano a cercare nuovi depositi dove stoccare le crescenti scorte del bene rifugio per eccellenza. Oggi, complice la chiusura dei rubinetti di liquidità annunciata dalla Federal Reserve, gli investitori di lungo termine svendono, con il prezzo del metallo prezioso vittima del più grande scivolone trimestrale dal collasso del sistema di Bretton Woods. E così il problema è passato nelle mani dei produttori: la recente decisione di Newcrest - la più grande società aurifera australiana - di svalutare il valore delle proprie miniere di 6 miliardi di dollari locali (circa 4,2 miliardi di euro), minaccia un vero e proprio terremoto di rettifiche in bilancio per il settore. Le possibili perdite di valore stimate da Bloomberg arrivano 17 miliardi di dollari Usa (13 miliardi di euro) e fanno presagire la più grossa e dolorosa pulizia di bilancio mai vissuta dall'industria dell'oro.

Secondo quanto spiegato all'agenzia da Jake Greenberg, analista di Jefferies, l'ondata di svalutazioni sarebbe ormai «inevitabile» e le prossime ad intervenire sui bilanci potrebbero essere Newmont Mining e Gold Fields. I segnali non si arrivano solo dal calo borsistico dei titoli - con i più esposti alle rettifiche, la canadese Barrick Gold o la russa Polymetal, reduci da pesanti scivoloni sui parterre. A rafforzare l'idea della «resa» annunciata dagli analisti ci sono anche le politiche di risparmio che le società stanno portando avanti: Barrick, ad esempio, sta riducendo di circa il 30 per cento del proprio personale d'ufficio. E il fatto che a tagliare sia il leader di settore non rassicura certo i mercati, convinti che se la tendenza ribassista sull'oro continuasse per altri 6 o 12 mesi i produttori sarebbero costretti a sacrifici ancora più pesanti. Così mentre fra gli analisti c'è chi scommette che la valanga di licenziamenti possa toccare da vicino anche i vertici aziendali - del resto nell'ultimo anno la metà dei cinque principali produttori d'oro ha già cambiato amministratore delegato - la prima mossa messa in campo dalle società aurifere è una riduzione decisa degli investimenti.

Il problema è che, mentre l'oro ha continuato la sua discesa, sono cresciuti inesorabilmente i costi di produzione. E ora gli investitori, preoccupati per il calo dei margini, costringono i gruppi a vendere asset anche a valore inferiori a quelli di libro: è il caso ad esempio di Alacer che ha messo sul mercato due miniere senza aspettarsi, secondo fondi di mercato, di recuperare il valore di carico in bilancio.

Gli analisti spiegano così il paradosso in cui sono intrappolati i produttori: mentre Newcrest e gli altri operatori, agli inizi del 2012, erano spronati dagli investitori a cogliere l'opportunità offerta dall'elevato prezzo dell'oro per sviluppare progetti e fare acquisizioni (195 i miliardi di dollari spesi nell'ultimo decennio di boom), ora vengono criticati per aver seguito quel consiglio.

E così la società australiana che ha scoperchiato il vaso di pandora delle svalutazioni si trova, dopo aver dimezzato il proprio valore in un anno a quotare in Borsa poco più di 7 miliardi di dollari australiani. E cioè molto meno dei 9,7 miliardi investiti nel 2010 per espandersi e comprarsi la rivale Lihir Gold.

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