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Questo articolo è stato pubblicato il 30 agosto 2013 alle ore 06:47.

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I riflettori puntati sulla crisi siriana distraggono i mercati petroliferi da altri fattori di tensione. Benché le esportazioni di un produttore importante come la Libia siano di nuovo quasi totalmente bloccate, il barile ha dunque chiuso la seduta in ribasso: Brent e Wti sono calati dell'1,2%, rispettivamente a 115,16 e 108,80 dollari.
Il rinvio dell'intervento armato contro Damasco è stato sufficiente a far tirare il fiato agli investitori, dopo l'intenso rally dei giorni scorsi, quando il riferimento europeo si era apprezzato in due sedute di oltre il 5%, cosa che non accadeva da gennaio 2012. Ma i motivi di allarme non mancano, anche se l'Agenzia internazionale per l'energia ha escluso la necessità di un rilascio di scorte strategiche: «L'attuale situazione – ha detto in un a nota – non richiede una risposta dell'Aie».
Sull'offerta non gravano soltanto rischi teorici, come un'ulteriore destabilizzazione del Medio Oriente in conseguenza di un attacco alla Siria. Lo stesso Iraq, che molti analisti indicano come il Paese più sensibile a eventuali ripercussioni, sta già oggi producendo circa 500mila barili al giorno in meno a causa di manutenzioni e problemi agli oleodotti (spesso dovuti ad attacchi terroristici).
L'emergenza più concreta è comunque senza dubbio quella libica. Da oltre un mese scioperi e azioni di sabotaggio da parte di gruppi armati stanno colpendo l'industria petrolifera del Paese, che è precipitata nel caos. Oggi Tripoli riesce ad esportare appena 145mila barili al giorno, rispetto a una capacità di 1,25 milioni bg. Sei porti su nove sono chiusi ed è stata bloccata la pipeline che trasporta verso la costa il greggio dei due grandi giacimenti El Sharara e El Feel. La produzione è intanto crollata da 1,6 mbg a 250mila bg secondo il Governo, che da settimane sta cercando invano di riprendere il controllo del settore. Adesso ci provano anche gli imam: la massima autorità religiosa libica, Dar al-Ifta, ha emesso una fatwa che condanna come un «grande peccato» le manifestazioni che «provocano la paralisi di agenzie governative e società di servizi di cui la gente ha bisogno, come quelle petrolifere».
Sommando alle difficoltà di Iraq e Libia quelle intervenute in altre aree produttive (tra cui il Mare del Nord), gli analisti stimano che negli ultimi mesi l'offerta di greggio sia diminuita di almeno 2 mbg: un calo enorme, che tuttavia non ha finora turbato più di tanto il mercato. Merito in parte dell'Arabia Saudita, secondo la società di consulenza Pira, che stima che nel terzo trimestre Riad produrrà in media 10,5 mbg, uno in più del trimestre precedente, nonché un record storico. A salvare la situazione è anche lo shale oil statunitense, secondo il ceo della società Gary Ross: «Questo è il mercato più squilibrato che abbia visto da molto tempo a questa parte. Senza lo shale americano nel terzo trimestre avremmo avuto una carenza di offerta di 1,5 mbg e i prezzi sarebbero saliti in modo vertiginoso».
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