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Questo articolo è stato pubblicato il 26 ottobre 2013 alle ore 08:29.

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«Penso sarebbe positivo privatizzare la Rai, come è successo in Francia con Tf1. Così la politica uscirebbe dalla televisione, dove oggi rappresenta un grande problema. Ovviamente, per quanto riguarda il rinnovo della concessione (nel 2016 scadrà la convenzione che affida in esclusiva alla Rai il canone, ndr), dovrete vedere voi italiani che linea editoriale il servizio pubblico dovrà avere. A quel punto, se la Rai sarà vendibile, noi ci saremo». Il produttore cinematografico e imprenditore franco-tunisino Tarak Ben Ammar ieri è stato ospite di Mix 24 negli studi di Radio 24 per parlare con Giovanni Minoli della politica e dell'economia italiane, della Primavera araba, dell'incapacità occidentale di comprendere le dinamiche del mondo musulmano e del futuro dei media che si muovono tra le due sponde del Mar Mediterraneo. Senza nascondere quella che oggi sembra essere la sua più grande ambizione: creare una conglomerata televisiva capace di offrire informazione e intrattenimento dal Nord Africa all'Europa del Sud. Un progetto ambizioso per il quale, ammette Ben Ammar, «non c'è un modello che vogliamo seguire. Saremo noi a tracciare il solco. Avendo già le nostre tv che parlano a quasi 200 milioni di persone dalla Mauritania all'Egitto vorrei raggiungere 60 milioni di italiani, 40 milioni di spagnoli e 60 milioni di francesi, anche per frenare la corsa di Marine Le Pen». Con quali alleati? «Chi vorrà unirsi al nostro progetto».
È in questa chiave che ieri Ben Ammar non ha fatto nulla per dissimulare il suo interesse per la televisione pubblica italiana, qualora venisse messa sul mercato. Anche alla luce del recente interesse per gli asset del nostro Paese da parte di investitori stranieri e fondi sovrani, una tendenza inauguratasi già prima della Grande crisi con l'acquisizione di Wind da parte di Naguib Sawiris e proseguita - ha spiegato Ben Ammar - con lo stillicidio di quel pezzo di «lusso italiano passato in mano ai francesi» e con Telecom «che forse va agli spagnoli».
Con questi precedenti, si chiede l'imprenditore amico di Silvio Berlusconi e Rupert Murdoch «perché due arabi (l'altro è lo stesso Sawiris, ndr) non potrebbero essere soci, con degli italiani, di una Rai privatizzata?». Oppure di un canale già in mano privata. Ben Ammar infatti si è anche detto non più contrario in linea di principio (essendo venuto meno il conflitto di interesse legato a Telecom), a diventare socio de La7 al fianco di Urbano Cairo, nel caso che quest'ultimo lo volesse. «Il problema è che La7 non è in vendita e io non posso certo dirmi pronto a comprare una tv che non è sul mercato. Ma se Cairo cercasse un socio: io sono qua».
Alla domanda se si senta più un uomo di media o di finanza Ben Ammar ha risposto di sentirsi «un uomo di media che ha rapidamente capito che se non mette piede nella finanza non potrà avere dei media forti». Venendo alle vicende di Mediaset, Ben Ammar ha raccontato di quando aveva quasi convinto Berlusconi a vendere Mediaset a Murdoch, aggiungendo che «furono i figli a bloccare tutto. Legittimamente hanno detto al proprio padre di non voler fare gli eredi», aggiungendo che, con il senno di poi, «è stato un bene perché hanno sviluppato il digitale terrestre e nella pay tv hanno creato un concorrente a Murdoch, dando al mercato dinamismo e competizione».
Alla domanda su quali siano state le scelte più felici fatte da Berlusconi, Ben Ammar ha citato «i figli e la creazione della tv», lasciando in secondo piano i 20 anni di politica («dove ha fatto molte cose bene e altre meno bene»). Salvo aggiungere che «la sua avventura politica non è assolutamente finita» e spingersi addirittura a tracciare un parallelo tra l'attuale fase di difficoltà del Cavaliere e la resurrezione politica di Charles de Gaulle del 1958.
Ma è stato il tema dei rapporti politici e finanziari tra le due sponde del Mediterraneo a monopolizzare buona parte del faccia a faccia. E alla domanda sul perché i fondi sovrani arabi ancora non abbiano investito in Italia come altrove, il finanziere franco-tunisino si è detto convinto che abbiano paura dell'Italia: «Quando si vede che degli imprenditori come Silvio Scaglia finiscono in galera, innocenti, e poi escono. Uno ci pensa due volte prima di venire». Secondo Ben Ammar anche Alitalia potrebbe essere una buona occasione di investimento. «Io lo dico spesso agli arabi: venite, svegliatevi, investite in Italia. Ma non è che mi ascoltino sempre».
Tornando sul terreno che gli è più familiare, quello dell'editoria, Ben Ammar ha detto di augurarsi che per Rcs presto «ci sia un editore. L'ho sempre detto: ci deve essere un editore. Come Murdoch. Della Valle ha i soldi e la voglia per farlo. Personalmente lo stimo. L'ho criticato solo quando ha parlato della vecchiaia di Cesare Geronzi e Giovanni Bazoli». Quest'ultimo, ha detto Ben Ammar, non è né un «grande vecchio», né un «grande capo», ma «un grande, vecchio capo. Con un ruolo di peso in una certa cosa che si chiama Banca Intesa, non proprio una piccola banca».
La panoramica dell'imprenditore franco-tunisino tra i centri di potere vecchi e nuovi della finanza italiana, anche alla luce delle recenti vicende, non poteva non toccare il caso Telecom, nel cui board Ben Ammar ha una poltrona. Il finanziere franco-tunisimo ha difeso il lavoro di Franco Bernabè, spiegando che il manager di Vipiteno «ha ereditato le macerie fatte da altri, ma non ha saputo tenere i soci italiani e spagnoli sulla stessa opinione e visione».

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