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Questo articolo è stato pubblicato il 21 novembre 2013 alle ore 19:19.
L'ultima modifica è del 21 novembre 2013 alle ore 19:21.

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Le vendita del 3% di Eni annunciata oggi dal Governo avverrà attraverso le stesse modalità già sperimentate con successo nell'estate del 2012 quando il Cane a sei zampe cedette il 30% (meno un'azione) di Snam alla Cassa Depositi e prestiti. Un film già visto, dunque, per il mercato: l'Eni, spiegano a Radiocor fonti tecniche, attualmente non ha in pancia che percentuali minime di azioni proprie.

Poco più di un anno fa deteneva il 9,24% del capitale, dopo un cospicuo buyback: quelle azioni furono poi annullate con la conseguenza che tutti gli azionisti videro salire in percentuale la propria partecipazione, a fronte di un capitale ridotto. Cdp e Tesoro si ritrovarono al 33,4% e potettero cedere la quota eccedente il 30% per acquistare da Eni la quota di controllo di Snam.

Anche questa volta Eni si prepara a un buyback fino al 10% del capitale, operazione già deliberata dall'assemblea dei soci nei mesi scorsi (il termine per l'operazione é entro 18 mesi). Una volta completati gli acquisti, le azioni proprie saranno annullate e lo Stato si ritroverà nuovamente al 33%, e disporrà ancora una volta di una pacchetto sacrificabile senza scendere sotto la quota del 30% (sensibile per l'Opa). L'obiettivo é incassare due miliardi.

L'esborso del buyback per Eni è calcolabile in 6,5 miliardi ai prezzi attuali, un impegno che potrebbe essere parzialmente mitigato dalla vendita della partecipazione in Severnergia, annunciata proprio ieri.

I commenti critici degli analisti finanziari
«Abbiamo inventato il moto perpetuo, signori. E poi non dite che la finanza è cattiva». L'annuncio della vendita del 3% di Eni da parte del Governo e, soprattutto, delle sue modalità, raccoglie commenti ironici tra gli analisti finanziari. L'operazione che prevede l'acquisto di azioni proprie, il loro annullamento e la successiva rivendita del 3% da parte del Tesoro, è osservata con spirito particolarmente critico dagli addetti ai lavori.

Secondo più di un'analista, l'operazione, così come è stata sommariamente delineata oggi da Letta e Saccomanni, si configura «né più né meno come un trasferimento di risorse da Eni allo Stato» con gli interessi della più grande azienda di Stato sacrificati in nome del risanamento dei conti pubblici.

Ma non tutti condividono quest'ultimo giudizio. Ci possono essere vantaggi anche per la società. Lo spiega un'articolata analisi pubblicata dall'economista Mario Seminerio sul suo blog «Phastidio». Anche Eni avrebbe da guadagnare dall'operazione, con una perfetta quadratura del cerchio.

«Se Eni utilizzerà debito per ricomprare azioni proprie - osserva Seminerio - si troverà ad avere pure un piccolo risparmio e a limare il proprio costo medio ponderato del capitale, visto che il suo costo del debito è inferiore al 'dividend yield' che paga sulle proprie azioni».

Nel 2012 il dividendo è stato pari al 6,5% del valore medio annuo delle azioni. «Non solo: a parità di ogni altra condizione, l'utile per azione (earnings per share, Eps) di Eni è destinato ad aumentare, e il mercato potrebbe pure apprezzare (non così immediato, in realtà, ma mettiamolo tra gli esiti possibili)». A questo punto Seminerio conclude con la battuta sulle privatizzazioni a «moto perpetuo».

Per un altro analista «lo Stato deve fare cassa e questo è un trasferimento di risorse da Eni allo Stato. Sarà anche un'operazione che può creare valore per gli azionisti ma dipende dal prezzo con cui viene fatta. Certamente il debito che sale di 6 miliardi a circa 20 deve, inevitabilmente, o ridurre il capex o portare alla cessione di altri asset».

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