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Questo articolo è stato pubblicato il 28 novembre 2013 alle ore 19:03.
L'ultima modifica è del 28 novembre 2013 alle ore 19:10.

Sarà una public company, ha annunciato il ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni, richiamandosi a quel modello d'impresa a proprietà estremamente diffusa che è tipico della realtà anglosassone e che ha fatto la fortuna dei suoi mercati finanziari.

In realtà, il termine evocativo usato per la riforma della governance di Bankitalia serve soprattutto per spiegare che in futuro la proprietà della Banca centrale italiana non sarà più così concentrata com'è ora (il 64,5 per cento del suo capitale oggi fa capo a due istituti di credito, Banca Intesa San Paolo e Unicredit, per effetto del grande processo di concentrazione avvenuto nel mondo del credito italiano) e che nell'arco di 24 mesi le quote di Palazzo Koch saranno scambiabili in un mercato.

Quale mercato? Quello costituito da una platea di istituzioni finanziarie che è stata ampliata rispetto a quella identificata nel 1936: nella compagine degli enti abilitati, oltre a banche italiane e della Ue, imprese assicurative italiane ed europee, enti ed istituti di previdenza e di assicurazione esistenti in Italia e fondi pensione faranno il loro ingresso anche le fondazioni: tutti investitori istituzionali con un orizzonte di lungo periodo.

Il modello caratterizzato da una proprietà privata del capitale, del resto, c'era già e il governo ha ritenuto opportuno preservarlo, perché le cose che funzionano non si cambiano. Anche negli Stati Uniti la proprietà della banca centrale fa capo a istituti finanziari privati e lo stesso vale per la Bank of Japan.

A garanzia della vitale funzione pubblica svolta dalla banca centrale resteranno, anche in futuro, così come accade oggi, quei paletti e quelle limitazioni dei diritti dei partecipanti al capitale che definiscono una soglia invalicabile:gli azionisti non possono né potranno ingerirsi nelle materie istituzionali della Banca d'Italia visto che il Consiglio superiore di via Nazionale può solo pronunciarsi sulla vita interna dell'istituto ma non può in nessun modo entrare in questioni di vigilanza o di politica monetaria o di sistema dei pagamenti.

La riforma serve proprio a chiarire meglio i diritti economici dei partecipanti, evidenziando, anche attraverso il valore aggiornato del capitale e delle quote (e, dunque, dando alle banche il valore aggiornato di ciò che è loro e permettendo di mettere in vendita questi asset) che i partecipanti stessi non hanno, invece, diritti economici su quella parte delle riserve della Banca d'Italia che proviene dal signoraggio, ovvero dall'esercizio di una funzione pubblica (l'emissione di banconote) attribuito per legge alla banca centrale.

Del resto, quelle riserve "inattingibili" rappresentano un cuscinetto prudenziale, a fronte dei rischi esistenti sul lato dell'attivo della banca centrale italiana. Rischi come quelli connessi ai finanziamenti al sistema creditizio e al portafoglio di titoli di stato: in un paese con più di 2.000 miliardi di debito pubblico, la prudenza non è mai troppa.

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