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Questo articolo è stato pubblicato il 15 maggio 2014 alle ore 07:35.
L'ultima modifica è del 15 maggio 2014 alle ore 13:57.

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Non ci sono solo le Casse di previdenza di ragionieri, medici e giornalisti tra i presunti truffati dalla Sopaf dei fratelli Magnoni, ex protagonisti eccellenti del mondo finanziario. Chi è rimasto davvero con il cerino in mano dal lungo e insistito dissesto della holding milanese sono le banche e i poveri obbligazionisti. Loro sì le perdite le hanno contate sull'unghia. Con il crac quei 140 milioni di crediti bancari che stavano nel bilancio Sopaf del 2009 insieme a 46 milioni di obbligazioni sono svaniti. Bruciati. L'unica speranza è che l'inchiesta appuri la bancarotta fraudolenta e ci si possa rivalere sui beni dei Magnoni. Ma è un percorso lungo, difficile e tortuoso. Che Sopaf non fosse nata sotto i migliori auspici lo dice la storia degli ultimi 5 anni.

Una parabola discendente che lascia sorpresi. La lunga e autorevole esperienza della famiglia nel mondo finanziario e la tela fitta di relazioni tutto facevano supporre fuorchè una fine tanto ingloriosa. La spiegazione oggi sembrano darla i magistrati: dietro alla caduta della finanziaria milanese c'è in realtà un raggiro continuo da parte della stessa famiglia che usava "Sopaf come un bancomat". L'accusa andrà provata ovviamente, ma la richiesta di arresto è densa di movimenti anomali di denaro che fuoriuscivano dalle casse della società quotata per finire nelle società collegate o controllate dai Magnoni, in Italia e nei paradisi fiscali. Ed è raro vedere una società perdere anno su anno tutto ciò su cui ha investito. Era come se comprata un'attività da Sopaf questa finisse irrimediabilmente per trasformarsi in un buco nero. Tra il 2008 e il 2011 è una girandola di acquisti. Sopaf entra in una ventina di società spendendo 140 milioni. Si va da Banca Network (fallita in poco tempo con un buco di oltre 100 milioni) a fondi d'investimento cinesi, a holding immobiliari a fondi di private equity. È un iper-attivismo che fa subito acqua da tutte le parti. In poco più di 24 mesi quelle attività tanto lucrose sulla carta perdono valore per oltre 100 milioni. Quasi dei Re Mida al contrario. Tutto quello che i Magnoni comprano si deteriora quasi subito. Pare una serie sfortunata di investimenti sbagliati. Già nel 2010 i revisori vista la caduta degli asset pongono il problema della continuità aziendale, cioè in parole povere se la Sopaf è ancora in gradi di camminare sulle proprie gambe. E siamo a quattro anni fa. Due anni dopo ecco arrivare la richiesta di fallimento presentata da UniCredit, la capofila dei creditori bancari. Che sanno benissimo che più la società vede andare in fumo il suo attivo di bilancio, più i loro crediti non verranno ripagati. Prendono precauzioni che si riveleranno inutili. Già all'assemblea di bilancio del 2010 tutte le azioni di Sopaf in mano a Ruggero e Giorgio Magnoni sono in pegno alle banche. Ruggero Magnoni ha 25 milioni di azioni Sopaf. Sono tutte in pegno a Monte dei Paschi di Siena. AcquaBlu la società di famiglia che ha il 30% del capitale di Sopaf ha dovuto mettere a pegno 120 milioni di azioni Sopaf a Banca Intesa e UniCredit.

Già quattro anni fa, un tempo geologico rispetto agli arresti dei giorni scorsi la quota Sopaf dei Magnoni era di fatto in garanzia agli istituti di credito. Non solo la stessa AcquaBlu, la scatola di controllo dei Magnoni in Sopaf era a sua volta in liquidazione. La holding di famiglia ha cominciato fin dal 2009 a cumulare perdite. Oltre un milione quell'anno e altri 3 milioni nel 2010. Nel 2011 il collasso per Acqua Blu con perdite salite a 25 milioni di cui ben 20 milioni legati alla svalutazione della stessa Sopaf. Insomma una situazione drammatica ma grottesca. Una famiglia blasonata con uno dei fratelli (Ruggero) ex capo di Lehman, ex artefice della scalata Telecom, socio tuttora della Intek di Vincenzo Manes, che ha tutte le sue società in fortissima perdita. Dov'è finito il genio finanziario, il tocco magico? Perso per strada e guarda caso proprio sugli affari di famiglia? Stando alla ricostruzione della Procura quel dissesto generalizzato (AcquaBlu, Sopaf, Banca Network, il fondo China Opportunity solo per citare le principali attività in collasso cronico) era voluto. In realtà, sempre secondo la Procura i soldi uscivano da Sopaf a favore di società esterovestite dei Magnoni. Dissesto e bancarotta provocata, altro che sfortuna. Ovvio che in queste condizioni i Magnoni si guardavano bene dal ricapitalizzare la società. Promessa mai mantenuta e all'origine della richiesta di fallimento avanzata da UniCredit. Sorte amara anche per gli ignari obbligazionisti. Quegli oltre 45 milioni di bond quotati a Milano non potevano essere rimborsati. E voilà ecco il colpo di genio dei Magnoni. Così come chiedono un rinvio dei rimborsi alle banche (che alla fine capito il giochetto dei Magnoni rifiutano); chiedono agli obbligazionisti un rinvio del bond. Nuovo bond emesso nel settembre del 2011, con cedola alzata al 9% e rimborso non nel 2012 ma nel 2015. Sembra allettante, ma è un trucco per prendere tempo. La Consob darà il via libera all'emissione nell'autunno del 2011 quando tutti sanno solo leggendo i bilanci che la situazione è pre-agonica. Nulla da fare: i bondisti non possono far altro che aderire al rinvio.

Molti di loro che non hanno letto il prospetto da 200 pagine (denso di annotazioni di rischio) aderiscono inconsapevoli. E ora hanno perso tutto, così come gli azionisti Sopaf che hanno visto bruciare l'intero capitale. Peccato che nel maggio 2013 Ruggero Magnoni (che evidentemente insieme ai fratelli non vuole mettere più un quattrino in Sopaf) si spedisca in Lussemburgo da un normale ufficio postale di Roma e con posta ordinaria, certificati obbligazionari a suo nome per 17 milioni. I soldi nelle tasche dei Magnoni evidentemente non mancavano. Ma metterli in Sopaf per salvarla era l'ultimo dei loro pensieri.

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