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Questo articolo è stato pubblicato il 04 giugno 2014 alle ore 07:44.

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Francesi e tedeschi vogliono abbandonare la Trans Adriatic Pipeline (Tap), il gasdotto che tra meno di cinque anni dovrebbe portare in Europa, attraverso l'Italia, 10 miliardi di metri cubi di gas estratto in Azerbaijan. Ad alzare il velo sui piani di Total ed E.On è stato Vagif Aliyev, responsabile investimenti di Socar, il partner azero del progetto. Ma dai diretti interessati non è arrivata nessuna smentita e un portavoce della società tedesca non ha escluso la possibilità, spiegando che E.On «rivede continuamente le opzioni strategiche relative al suo portafoglio, pipeline comprese» e che tale revisione «talvolta porta a valutare la dismissione di alcuni asset».

Un'eventuale uscita dei due soci non è di per sè un elemento sufficiente a compromettere il progetto della pipeline, ma potrebbe rallentarne la realizzazione: a causa di «una revisione delle proprie strategie e di una rimodulazione della propria programmazione» Tap ha già dovuto ripetere un bando per la prequalificazione dei fornitori. Un rimescolamento della compagine azionaria sarebbe inoltre un nuovo colpo all'immagine per Tap, già alle prese con l'agguerrita opposizione di gruppi ambientalisti e costretta a misurarsi con un iter autorizzativo lunghissimo e zoppicante, che ha sollevato il timore di un naufragio del progetto, quanto meno sul versante italiano. Facendo leva sulle nostre debolezze, la Croazia si sta già proponendo come approdo alternativo della pipeline e, più in generale, come hub del gas alternativo all'Italia: un attivismo che «come Tap Italia ci spaventa», ha ammesso di recente l'ad Giampaolo Russo.

L'Italia appena un mese fa è scomparsa anche dalla mappa del South Stream, il maxigasdotto con cui Gazprom punta a scavalcare l'Ucraina, che terminerà invece in Austria (si veda Il Sole 24 Ore del 3 maggio). Più in sordina, è stato accantonato in aprile il progetto del gasdotto Tgl, che doveva percorrere l'Austria per collegare la Germania a Tarvisio. Infine il Galsi, che doveva portare in Sardegna il gas algerino, ha da poco ricevuto l'ennesimo colpo (probabilmente mortale) con l'uscita della Sfirs, la finanziaria regionale sarda, dal consorzio per la sua realizzazione.

Benché si candidi ad essere hub – e non destinazione finale – del gas, l'Italia non è un mercato allettante agli occhi dei fornitori di energia: i nostri consumi di gas in particolare sono calati di oltre il 15% rispetto al picco di 80 miliardi di metri cubi raggiunto nel 2005 e pochi scommettono su una ripresa. Ma ci sono anche motivi specifici per cui un abbandono di Tap da parte di E.On e Total sarebbe uno sviluppo tutt'altro che sorprendente.

È noto da mesi che la società tedesca sta esplorando la vendita di tutte le attività in territorio italiano: non solo il 9% di Tap, che finora esiste solo sulla carta, ma anche centrali elettriche per 6 GW, l'intera rete commerciale (con circa un milione di utenti) e il 46,8% dell'Olt, il nuovo rigassificatore al largo di Livorno. Total, che di Tap ha il 10%, non solo è anch'essa impegnata in un ampio piano di dismissioni di asset "non strategici", ma tre giorni fa ha rinunciato proprio a Shah Deniz, il giacimento del Mar Caspio che alimenterà il futuro gasdotto. La sua quota è stata rilevata per 1,5 miliardi di dollari dalla turca Tpao (che è così salita dal 9 al 19%).

Lo scorso dicembre un altro socio storico di Shah Deniz, la norvegese Statoil, aveva fatto un passo indietro riducendo la partecipazione in Shah Deniz dal 25,5 al 15,5 per cento. Ma finora non è seguito un analogo disimpegno da Tap, di cui resta uno dei maggiori azionisti.
Twitter: @SissiBellomo
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