Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 12 giugno 2014 alle ore 12:40.
L'ultima modifica è del 12 giugno 2014 alle ore 14:50.

My24

Sul mercato dei titoli di Stato c'è una apparente euforia. In Europa i tassi stanno scendendo macinando record su record. Come ad esempio quello visto lunedì, per il BTp a 10 anni, venduto al 2,7% (il BTp a 3 anni oggi battuto allo 0,89%, minimo storico). Ha stupito anche il sorpasso dei Bonos sui Treasury americani. Sul mercato secondario (quello aperto a tutti gli investitori, grandi e piccoli) i titoli spagnoli prezzano il 2,5% mentre quelli statunitensi pagano il 2,64%. Stesso discorso per Irlanda e Inghilterra. I titoli irlandesi a 10 anni prezzano un rendimento del 2,4% contro il 2,7% del Gilt britannico.

È evidente che se ci si sofferma ad osservare i rendimenti fini a se stessi ci sono molte cose che non tornano. Come può la Spagna con un'economia al palo (il Pil nel 2014 è atteso in crescita dello 0,5% e la disoccupazione media non riesce da tempo a scrollarsi di dosso l'allarmante tasso del 25%, senza dimenticare il debito estero superiore al 90% del Pil) essere considerata più sicura degli Stati Uniti (che nonostante tutto restano la prima economia mondiale in termini di Pil e che quest'anno dovrebbero crescere del 2% a fronte di un tasso di disoccupazione del 6,3%, oltre a conservare il bonus di Paese detentore della valuta di ultima istanza globale).

Se poi analizziamo il differenziale dei rating tra i vari Paesi (per quanto questi anche giustamente siano stati spesso in passato messi sotto torchio) il mal di testa cresce. La Gran Bretagna ha la Tripla A mentre l'Irlanda è BBB+, a soli due gradini dalla pericolosa soglia "non investment grade" (sotto la quale molti grandi fondi non possono più tecnicamente acquistarne i titoli). Gli Usa sono Tripla A (per Moody's e Fitch) e AA+ (per S&Poor's) mentre Madrid viaggia molto distante da Washington, con la BBB di S&Poor's, sotto l'Irlanda (BBB+), stesso livello dell'Italia.

Combinazioni apparentemente paradossali potrebbero estendersi anche confrotando altri Stati. Questo se ci limitiamo ad osservare il rendimento nominale dei rispettivi titoli di Stato.

I paradossi si stemperano se però si passa dai rendimenti nominali a quelli reali, ovvero se si guardano i tassi depurati dal tasso di inflazione. Nell'Eurozona, in particolare nella periferia, da depurare c'è ben poco. In Spagna l'inflazione è azzerata (0,2%), in Italia viaggia allo 0,5% (la Grecia a maggio ha fatto segnare addirittura una deflazione del 2%). Mentre negli Stati Uniti l'inflazione è dell'1,8% e in Gran Bretagna del 2%.

Per questo motivo non è vero che in questo momento Spagna, Italia e Irlanda stiano pagando (per sostenere il debito pubblico) meno di Stati Uniti e Gran Bretagna. Considerando la spirale deflazionistica in corso (che la Bce non ha ancora arginato, vedasi il tentativo andato a vuoto di deprezzare l'euro sul dollaro con le mosse espansive annunciate il 5 giugno) il costo reale del debito resta più alto nei Paesi che stanno macinando a livello nominale dei record al ribasso dei rendimenti dei titoli di Stato.

Se infatti al 2,5% del Bonos spagnolo sottraiamo 0,2 di inflazione, resta un costo reale di 2,3. Se al 2,65% del T-Bond Usa sottraiamo l'1,8% di inflazione, rimane un costo reale dello 0,85%.

Quindi, nella dinamica dei costi reali i differenziali dei rating (che dovrebbero misurare il livello di solvibilità di un Paese) in un certo qual modo trovano ragione e riflettono in parte il differenziale tra questi Paesi sul mercato (non protetto dalle strategie delle banche centrali come quello dei titoli di Stato) dei Cds, una sorta di polizze che assicurano contro il fallimento di un titolo sottostante dove in effetti le distanze tra Paesi più affidabili e quelli meno sono più marcate (i cds italiani e spagnoli sono ben più cari di quelli statunitensi). Restando sul costo reale del debito non è vero che Italia, Spagna e compagnia bella stiano pagando adesso meno che in passato quando il decennale era superiore al 4%, questo perché allora l'inflazione era superiore al 2%.

Se il costo reale quindi non è cambiato di molto (seppur ci sia l'illusione di un beneficio che diventerebbe effettivo nel lungo periodo in caso di aumento dell'inflazione sul target del 2% della Bce) c'è però un problema per la periferia dell'Eurozona. Emerge dal fatto che i tassi dei bond riflettono le "aspettative" future sul tasso di inflazione. Quindi se sono così bassi non si scappa da queste due alternative: 1) bolla finanziaria; 2) i mercati si aspettano un lungo periodo di bassa inflazione-deflazione dei Paesi periferici dell'Eurozona. Questo è lo scenario che paventa il Wall Street Journal che nei giorni scorsi ha lanciato l'allarme: «Se i rendimenti dei bond europei non inizieranno a salire sarà panico». E lo ha ricordato anche Standard and Poor's in uno studio del 10 giugno secondo cui a queste condizioni «la già fragile ripresa economica dell'Eurozona è destinata a rimanere frenata».

In sostanza, la lettura ai raggi X delle quotazioni finanziarie di spread, valute e rendimenti, ci dice oggi che i mercati prezzano uno scenario semi-deflativo di lungo periodo per la periferia dell'Eurozona, il che corrisponde ad aspettative anemiche sulla ripresa economica, certo inferiori a quelle indicate nei paper dagli organismi internazionali che vedono per i prossimi anni una rimonta dell'inflazione e dell'economia. C'è da sperare allora che i mercati si stiano sbagliando.

twitter.com/vitolops

Commenta la notizia

Listino azionario italia

301 Moved Permanently

Moved Permanently

The document has moved here.

Principali Indici

301 Moved Permanently

Moved Permanently

The document has moved here.

301 Moved Permanently

Moved Permanently

The document has moved here.

Shopping24

Dai nostri archivi