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Questo articolo è stato pubblicato il 29 giugno 2014 alle ore 15:28.
L'ultima modifica è del 01 luglio 2014 alle ore 19:34.

«Dimenticate le performance di questi primi sei mesi del 2014, i prossimi saranno sicuramente più complicati»: l'incipit del report diffuso al giro di boa di metà anno da una primaria banca d'affari rappresenta la fotografia più fedele di cosa pensano di questi tempi i grandi investitori sul destino dei mercati. E ha anche un vago sapore di deja-vu, perché queste parole (condite dal consueto invito a restare comunque positivi nei confronti dei listini) sono più o meno le stesse uscivano sei mesi fa dalle bocche di gestori.

Nel frattempo però gli indici hanno proseguito la corsa, folle per alcuni, di un 2013 che pareva irripetibile: quando manca ormai soltanto la seduta di domani per completare il semestre, il bilancio è ampiamente positivo per le azioni (dal +5,9% della Wall Street dei record al +12% di Piazza Affari, migliore del Vecchio Continente, passando per il +4% medio dell'Eurozona) e anche per le obbligazioni (+4,1% a livello globale, con evidenti sovraperformance per la «periferia» europea e per gli emergenti, tornati di nuovo in auge dopo la battuta d'arresto del 2013).

Di tutti i movimenti è proprio quest'ultimo il più inatteso, perché la gran parte dei gestori aveva sì previsto la continuazione della fase rialzista sull'azionario (anche se probabilmente non in questa misura), ma aveva anche profetizzato la fine del rally secolare dei bond. E invece il denaro ha continuato ad affluire copioso sui titoli a reddito fisso: non solo sui BTp e Bonos di turno, che molti pensavano avessero ancora margini di recupero, ma anche sui «core», Bund e Treasury, i cui rendimenti sono di nuovo vicini ai minimi storici e quindi sempre più tirati.

Per i pessimisti un fenomeno del genere è ovviamente il segnale più evidente (e preoccupante) dell'esistenza di una bolla che cresce a vista d'occhio e diventa potenzialmente sempre più pericolosa. Chi ha una visione più costruttiva, tende invece a pensare che gli operatori abbiano preso le misure alle banche centrali e alle loro manovre sulla liquidità, che in fondo resta pur sempre la principale (se non l'unica) ragione alla base della marcia dei mercati. Se insomma il 2013 era stato caratterizzato dai timori per il tapering, i primi sei mesi di quest'anno rischiano di passare alle cronache finanziarie come quelli in cui la stretta monetaria scivola in secondo piano, e proprio nel momento in cui la Federal Reserve sta effettivamente riducendo gli stimoli.

Le Banche centrali mantengono quindi il loro ruolo di «burattinai» sui mercati: la Fed, come detto con il suo quantitative easing sulla via del tramonto, la Banca del Giappone, quella d'Inghilterra e anche la Bce, che molte misure straordinarie le ha attuate e altre ne ha promesse nell'ultimo incontro. A mutare, per certi versi, è stato l'atteggiamento di molti investitori, che hanno presto derubricato il tema del tapering: «Fra gli operatori è ormai diffusa la sensazione che lo stimolo monetario durerà ancora a lungo, e che quando i tassi torneranno a crescere il rialzo sarà comunque limitato e soprattutto accompagnato da misure in grado di tenere sotto controllo la stabilità finanziaria per evitare il ripetersi di quanto accaduto nel 2008», sostiene Marco Piersimoni, investment advisor di Pictet Am.

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