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Questo articolo è stato pubblicato il 31 luglio 2014 alle ore 07:22.
L'ultima modifica è del 31 luglio 2014 alle ore 09:07.

Il mercato del petrolio, sempre più indifferente alle tensioni geopolitiche, non ha mostrato alcuna reazione all'inasprimento delle sanzioni contro la Russia. Eppure – per la prima volta dall'esplodere della crisi – Europa e Stati Uniti hanno rivolto le armi della diplomazia anche contro il settore dell'energia, cuore dell'economia russa. Mancano ancora dettagli precisi sulle misure punitive, ma è già chiaro che non c'è alcun embargo sulle importazioni di idrocarburi da Mosca, che costituiscono circa un terzo delle forniture Ue.
Nessun divieto insomma né per il gas russo, da cui siamo fortemente dipendenti, né per il greggio, in teoria sostituibile – anche se forse a caro prezzo – con barili di altra provenienza. È probabilmente per questo che i mercati energetici non hanno registrato la novità, né si sono scaldati di fronte alle minacce di «inevitabili aumenti di prezzo» da parte del ministero degli Esteri russo, secondo cui «Bruxelles ha creato di sua volontà barriere a un'ulteriore cooperazione con la Russia nel settore chiave dell'energia».
Un aumento dei prezzi del gas è una ritorsione possibile, anche se improbabile, poiché comporterebbe una violazione dei contratti e dunque un'ulteriore escalation. Per il petrolio invece il rischio di rincari c'è, anche se non immediato, perché nel medio-lungo periodo l'offerta rischia di essere compromessa da una frenata dello sviluppo dell'industria petrolifera russa. Il Consiglio europeo ha infatti anticipato che «verranno negate le licenze di esportazione in Russia di prodotti destinati alla produzione o esplorazione di giacimenti petroliferi offshore, nell'Artico o nei progetti di shale oil». Fonti Ue hanno già escluso categoricamente che le sanzioni si applichino a progetti nel gas e hanno aggiunto che il divieto riguarda solo le forniture per nuovi progetti (anche se non è chiaro che cosa si intenda per «nuovi»), ma per Mosca potrebbe comunque essere un problema: per contrastare il declino dei giacimenti tradizionali, la Russia punta quasi esclusivamente su progetti non convenzionali o nell'Artico e gli analisti ritengono che le tecnologie occidentali non siano facilmente sostituibili, ad esempio dalla Cina.
Se Mosca è in difficoltà, nemmeno le società europee e americane dormono sonni tranquilli. L'export dei prodotti sotto embargo vale per l'Europa solo 150 milioni di euro l'anno, stima Bruxelles, ma le partnership nel settore petrolifero pesano molto di più.
La francese Total ieri ha dichiarato di aver smesso di acquistare azioni di Novatek, di cui possiede il 18%, dopo l'abbattimento del Boeing malese in Ucraina e ora il suo coinvolgimento nel progetto Yamal Lng, un investimento da 27 miliardi di dollari nel gas liquefatto in Siberia, è nel limbo. La connazionale Technip, società di engineering, aveva già lanciato nei giorni scorsi un profit warning legato all'arrivo di nuove sanzioni contro la Russia, mentre martedì a suonare l'allarme era stata la britannica Bp, la più esposta tra le major, azionista di Rosneft con il 19,75% e dipendente dalla Russia per un terzo della sua produzione di greggio.
Oltre Oceano le incertezze maggiori riguardano ExxonMobil, che tra un paio di settimane dovrebbe in teoria iniziare proprio con Rosneft a trivellare nell'Artico. Con il gigante russo ha accordi anche l'Eni, per esplorazioni offshore nel mare di Barents, anche se non ha ancora svolto alcuna attività significativa. In una posizione simile è la norvegese Statoil (Oslo si è allineata alle sanzioni Ue), mentre Royal Dutch Shell è socia di Gazprom nell'estrazione di petrolio e gas offshore a Sakhalin-2. Qualche ombra sul futuro c'è anche per Saipem, ma la società italiana ha escluso un impatto per le commesse già assegnate (per di più relative al gas), come quella di tubazioni per il tratto offshore di South Stream.
Twitter: @SissiBellomo
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