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Questo articolo è stato pubblicato il 08 agosto 2014 alle ore 20:58.
I raid aerei americani sul Nord dell'Iraq stanno convincendo le compagnie petrolifere ad evacuare il personale dalla zona e due piccoli giacimenti nel Kurdistan hanno già sospeso la produzione per motivi di sicurezza. Ma le quotazioni del del greggio non si sono impennate: dopo una breve – e tutto sommato modesta – fiammata in seguito alla conferma dei bombardamenti da parte del Pentagono, il Brent si è prima afflosciato, per poi passare addirittura in negativo, sotto 105 dollari al barile e dunque molto vicino ai livelli di martedì, quando era sceso ai minimi da nove mesi (104,07 $).
Prese di profitto, è la spiegazione generica di molte agenzie: si era comprato sull'annuncio dell'intervento militare, in pratica il via libera dato giovedì sera dalla Casa Bianca aveva dato giovedì sera, e poi si è venduto sulla notizia. Ma in fondo il riferimento europeo era salito di poco più dell'1%, fino a un picco di 106,85 $, ben al di sotto dei 115 $ che aveva superato in giugno, all'inizio dell'avanzata dei guerriglieri dello Stato Islamico. Come fa notare Oliver Jakob di Petromatrix l'intervento americano potrebbe avere in realtà un impatto ribassista «perché finalmente ha tracciato la linea che non dev'essere oltrepassata, rafforzando in questo modo la stabilità sia nel Sud dell'Iraq che nel Kurdistan». Inoltre, il sostegno dimostrato dagli Usa all'autonomia curda «rinforzerà la loro richiesta di commerciare in modo indipendente il loro greggio».
A frenare gli acquisti sui mercati petroliferi c'è però soprattutto l'offerta abbondante e la convinzione che non ci sia alcun problema di rifornimenti. Una convizione così forte da non vacillare neppure di fronte alle guerre: quelle calde e quelle fredde, combattute a colpi di sanzioni.
A rafforzare quella che è più di un'impressione (anche dal mercato fisico del petrolio arrivano segnali di debolezza) ci sono i continui record macinati dagli Stati Uniti: l'export di greggio – benché tuttora largamente vietato – è a livelli che non si vedevano da 60 anni (si veda Il Sole 24 Ore di ieri). L'Opec, nell'ultimo bollettino mensile, ha intanto limato le stime sulla domanda nel 2014 – che ora vede crescere di 1,1 milioni di barili al giorno – e abbassato di nuovo quelle sulla richiesta del suo greggio, a 29,6 mbg. Nonostante le tribolazioni di molti dei suoi Paesi membri, in luglio ne ha prodotti 30mila in più.
Lo stesso Iraq continua a estrarre più di 3 mbg (anche se l'output è calato di mezzo milione di barili rispetto al picco di 3,6 mbg raggiunto in febbraio). Il grosso della sua industria petrolifera si trova infatti nel Sud, finora risparmiato dai combattimenti. Al Nord la situazione sta invece diventando sempre più critica, ma i due giacimenti fermati nelle ultime ore sono irrilevanti in termini di produzione: meno di 1.000 bg per Barda Rash, operato dalla britannica Afren Resources, e 3-4mila bg per Demir Dagh della canadese Oryx Petroleum. Continuano a pompare a pieno ritmo, almeno per ora, i maggiori campi del Kurdistan: Taq Taq e Tawka, che complessivamente forniscono 230mila bg. Genel Energy e Dno, che li controllano, continuano a ripetere che le operazioni non si fermeranno. Anche loro però negli ultimi due giorni hanno subìto ribassi a doppia cifra in Borsa, come molte delle società presenti nell'area. E dopo le prime bombe americane si sono convinte ad avviare l'evacuazione del personale non indispensabile. Lo stesso hanno fatto Chevron e ExxonMobil, mentre ancora resistono la britannica Gulf Keystone Petroleum (che ha da poco avviato il promettente giacimento di Shaikan), l'austriaca Omv, l'ungherese Mol e le sudcoreane Knoc e Kogas.
Twitter: @SissiBellomo
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