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Questo articolo è stato pubblicato il 10 settembre 2014 alle ore 07:27.

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E se, all'orizzonte, si profilasse un polo del lusso italiano? Le auto icona, prima di tutto la Ferrari, ma anche le grandi griffe della moda.
L'accelerazione prodotta dall'uscita di Luca Cordero di Montezemolo dalla Ferrari sta aumentando l'eccitazione intorno all'oggetto misterioso su cui banchieri e analisti, avvocati d'affari e top manager stanno dedicando da giorni i loro sussurri e i loro pensieri proibiti.

Una nuova idea di Made in Italy, di cui la Ferrari sarebbe il perno e la calamita, in grado di catalizzare un processo di riorganizzazione - sul medio periodo - di quanto di meglio abbia prodotto il capitalismo manifatturiero italiano.
Una ipotesi a cui molti guardano con la concupiscenza con cui si osserva la pelle degli interni della Ferrari è, appunto, basata sulla congettura della quotazione di quest'ultima. Prima considerazione dei banchieri d'affari: Chrysler e Fiat compongono un organismo industriale complementare e omogeneo; la Ferrari, ma anche la Maserati e l'Alfa Romeo, potrebbero benissimo sviluppare tutta la loro forza industriale e commerciale benefica in Fca, essendo però conferite a un'altra società, sempre da sottoporre a quotazione. In quella maniera, le auto icona sarebbero così in grado di liberare nella misura più estesa tutto il loro potenziale finanziario. A quel punto, in un ipotetico scambio di azioni Fiat contro azioni Ferrari, un pacchetto rilevante di quest'ultima andrebbe - in forma diretta o indiretta - sotto il controllo di Exor. E, qui, sul mercato le riflessioni si fanno parossistiche. Perché, secondo alcuni, proprio il nocciolo duro di Ferrari potrebbe diventare il primo (prezioso) mattoncino su cui edificare una riorganizzazione sistemica del Made in Italy italiano.

Fantaeconomia? Di certo, oggi, il Sistema Italia nel suo complesso ha almeno due problemi. Prima di tutto, qualunque cosa succeda nei prossimi anni sul libero mercato di Wall Street al titolo Fiat Chrysler Automobiles - in termini di placida sonnolenza o di nuovi investitori, di ulteriori alleanze o di take over da parte di altri gruppi stranieri - esiste la necessità di preservare l'italianità di un marchio storico come la Ferrari. La quale, con il suo mix di tecnologia e estetica, reputazione del marchio e manifattura artigianalizzata, rappresenta un paradigma della cultura industriale e del saper fare italiano.
Il secondo problema è il futuro di alcune grandi griffe. Nei ragionamenti più visionari ma anche suggestivi, nei prossimi anni non si potrà non pensare al futuro di alcuni grandi gruppi della moda, in una evoluzione del capitalismo familiare che non neghi la natura di quest'ultimo, ma che trovi comunque mediazioni societarie e formule di alleanze in grado di evitare acquisizioni pure e semplici da parte di grandi gruppi multinazionali, con quartier generale all'estero. Prendete, per esempio, la sorte di Armani. Prima o poi il tema della successione del fondatore dovrà arrivare a qualche risultato concreto. E qui, anche di fronte ai rapporti stretti e ai vincoli di stima e di amicizia che legano Giorgio Armani e la sua famiglia con la famiglia Elkann-Agnelli, la fantasia si accende. Fantasia del mercato che, poi, significa non solo le suggestioni di tutti quelli che potrebbero ambire a cospicue provvigioni in una operazione del genere. Fantasia del mercato che significa anche la prospettiva strategica di quanti hanno una idea sistemica dello sviluppo strategico del capitalismo italiano. E che, appunto con fantasia, pensano ad aggregazioni in grado di fare compiere, peraltro nei segmenti a più alto valore aggiunto delle global value chains, all'Italia quel salto dimensionale invocato da molti.

Procediamo con ordine. C'è la questione Ferrari. C'è la Maserati. Ci sono gli abiti di Giorgio Armani. E, poi, a ben vedere, nel segmento del lusso italiano - in senso, appunto, esteso - non mancano i brand e le società che hanno soltanto bisogno di un contenitore coeso e organico per esplodere, portando il Made in Italy a dimensioni e a scale che oggi gli difettano.
Fantaeconomia? Sarà. Di certo, in questo preciso passaggio storico, ci sarebbe perfino un manager con una visione globale e una competenza così profonda per provare a trasformare queste intuizioni e questi desiderata in un serio e compassato piano industriale. Do you remember Andrea Guerra?

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