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Questo articolo è stato pubblicato il 14 ottobre 2014 alle ore 15:27.

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Ormai è una sfida a braccio di ferro. Per fermare la caduta dei prezzi del petrolio, prima o poi qualcuno dovrà cedere: se non sarà l'Opec a tagliare la produzione, toccherà a qualcun altro fermare le trivelle. L'alternativa – a giudicare dalle condizioni del mercato – è un'ulteriore discesa senza freni delle quotazioni, che sono già scese ai minimi da quattro anni e rischiano ora di rotolare addirittura sotto 70 dollari.
Gli enormi investimenti dello scorso decennio, stimolati dalla corsa dei prezzi fino a un record storico di 147 $/barile nel 2008, stanno dando i loro frutti proprio in un momento in cui la domanda di petrolio sta rallentando, in parte per motivi congiunturali legati alla debolezza dell'economia, ma in parte anche per motivi strutturali, come la maggiore efficienza energetica o la diffusione di modelli di sviluppo meno “energy intensive” rispetto a come era stata la rivoluzione industriale in Occidente.
Anche gli speculatori sembrano ormai guardare al petrolio – e più in generale alle materie prime – con occhi diversi: il boom di offerta non riguarda solo il greggio, ma anche il carbone, il minerale di ferro, molti metalli e persino i cereali. I principali indici di commodities, in calo per il quarto anno consecutivo, sono tornati ai livelli del 2009, in piena recessione globale. A rendere meno attraente il comparto ci si sono messi anche il rally del dollaro e la fine del rischio inflazione (oggi si teme anzi la deflazione). Tra Dodd-Frank e altre riforme, infine, l'ambiente regolatorio si è fatto molto più difficile e molte delle grandi banche che un tempo dominavano il settore – come Morgan Stanley, Jp Morgan o le europee Barclays e Deutsche Bank – ora stanno ridimensionando il loro coinvolgimento.
Persino Andy Hall di Astenbeck Capital Management, stella degli hedge funds, celebre per l'orientamento super-rialzista sul petrolio, si è piegato all'evidenza: «Nel breve periodo – ha scritto il 1° ottobre in una lettera agli investitori – l'outlook per le quotazioni a pronti del petrolio non è particolarmente incoraggiante, nonostante le continue tensioni geopolitiche. Anche se l'economia globale dovesse tornare alla crescita tendenziale nel 2015, la crescita della domanda petrolifera faticherebbe a tenere il passo con l'incremento atteso dell'offerta».
Persino sotto il profilo dell'analisi tecnica non sembrano esserci speranze di riscossa per il petrolio. I numeri di Fibonacci suggeriscono che il Brent sia vicino al tracollo: «Se chiuderà la settimana sotto 88,49 $ si tratta di un indicatore molto ribassista», avverte Jay Bishen di CitiFx (Citigroup), secondo cui la prossima “fermata” potrebbe essere intorno a 68 $/bbl. Il Wti sarebbe addirittura «tecnicamente nella tomba» per Oliver Sloup di iiTrader, convinto che ora si punti dritto a 76 $ (la chiusura di venerdì è stata a 85,82 $/bbl).
Nell'Opec sta comprensibilmente crescendo il nervosismo: il Venezuela ha appena chiesto formalmente all'Organizzazione di convocare un vertice straordinario, in anticipo rispetto al meeting programmato per il 27 novembre. Ma i grandi produttori del Cartello più che a sostenere le quotazioni del greggio sembrano impegnati a difendere con le unghie e coi denti le proprie quote di mercato, sempre più insidiate in un'epoca di sovrabbondanza di petrolio: dopo l'Arabia Saudita anche l'Iran ha tagliato i prezzi di listino per l'Asia ai minimi dal 2008 ed è probabile che Iraq e Kuwait li seguiranno a ruota.
Se come sembra l'Opec è ormai andata alla guerra dei prezzi, un'inversione di rotta sul mercato potrebbe arrivare solo dalle compagnie petrolifere private. Ma gli operatori nello shale oil americano, società medio-piccole, spesso fortemente indebitate, potrebbero essere lenti a reagire: i più virtuosi hanno ormai costi di produzione intorno a 60 $/barile, tutti gli altri si sono probabilmente coperti dal rischio di cadute di prezzo con operazioni di hedging. Oppure, più banalmente, non possono a rinunciare a cuor leggero ai flussi di cassa generati dalle loro operazioni.
Quanto alle major petrolifere, i loro bilanci stanno già soffrendo e soffriranno sempre di più se il petrolio non risale a 100 dollari e oltre. Ma la loro macchina è la più difficile da fermare, considerate le dimensioni ingenti, il forte indebitamento e le pretese degli azionisti, abituati a generosi dividendi.

twitter.com/SissiBellomo

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