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Questo articolo è stato pubblicato il 11 novembre 2014 alle ore 21:55.

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Potrebbe essere la Russia l'anello debole tra i grandi produttori di petrolio, il primo a frenare in modo significativo le estrazioni dopo il crollo delle quotazioni del barile. Nel caso di Mosca non si tratterebbe di una scelta deliberata – come per l'Opec o per gli operatori dello shale oil americano, che finora stanno calamitando l'attenzione degli analisti – ma piuttosto di una conseguenza delle difficoltà finanziarie provocate dalle sanzioni e dalla contemporanea riduzione delle entrate petrolifere, un'accoppiata di fattori che sta facendo vacillare non solo i piani di investimento delle compagnie estrattive, ma l'intera economia russa.

In una recente convegno Leonid Fedun, vicepresidente e azionista di Lukoil, ha avvertito che la Russia rischia di perdere tra 0,5 e 1,4 milioni di barili al giorno di produzione entro il 2017 se non investe abbastanza per sviluppare nuove risorse: «I nuovi progetti non basteranno a compensare il declino dei vecchi giacimenti, che in media è intorno all'11%». Le sanzioni non solo hanno prosciugato i finanziamenti delle banche occidentali, ma hanno precluso a Mosca l'importazione di importanti attrezzature per l'industria petrolifera e l'hanno privata di collaborazioni chiave, come quella di ExxonMobil, che per ordine della Casa Bianca ha dovuto fermare la collaborazione con Rosneft nell'Artico.

La produzione russa per ora si mantiene vicina al record post-sovietico di 10,6 mbg, ma i consulenti di Ihs Cera stimano che se le sanzioni non verranno attenuate si arriverà facilmente a 7,6 mbg nel 2025: abbastanza da compensare la crescita dello shale oil negli Usa. Già nel breve periodo l'output russo potrebbe comunque subire un contraccolpo: Renaissance Capital ritiene plausibile una perdita di 350mila bg già l'anno prossimo, se il prezzo del barile rimarrà sotto 90 dollari.

Proprio ieri il Brent, messo sotto pressione dall'ascesa del dollaro, è scivolato al nuovo minimo quadriennale di 80,46 $ e Jp Morgan – diventando la più pessimista tra le grandi banche – ha tagliato ad appena 82 $ la previsione di prezzo medio per il 2015 e a 87,80 $ quella per il 2016 (prima si aspettava rispettivamente 115 e 120 $/bbl).

Sul mercato si va rafforzando la convinzione che l'Opec non riuscirà ad accordarsi per un taglio di produzione al vertice del 27 novembre. L'Iraq del resto ha continuato ad inseguire le strategie di prezzo dell'Arabia Saudita, con Official selling prices (Osp) di nuovo in calo per gli Usa in dicembre e in salita per l'Asia, dove hanno praticato rincari anche Iran e Kuwait (che per ora non hanno aggiornato i listini per Europa e Usa).

Qualche segnale di rallentamento delle estrazioni sta intanto arrivando dagli Usa: gli impianti di trivellazione attivi, conteggiati da Baker Hughes, sono scesi la settimana scorsa da 1.582 a 1.568, il minimo da agosto. Il loro numero è diminuito di 49 unità rispetto al picco di ottobre, tuttavia è ancora piuttosto elevato e comunque il calo non sembra aver influenzato il mercato. Forse perché nei maggiori bacini di shale oil la produzione continua a salire: da Bakken, Eagle Ford e Permian l'Energy Information Administration si attende che in dicembre arriveranno 111mila bg in più, per un totale di 4,72 mbg.

twitter.com/SissiBellomo

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