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Questo articolo è stato pubblicato il 19 novembre 2014 alle ore 07:49.
L'ultima modifica è del 19 novembre 2014 alle ore 08:33.

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In difficoltà di fronte al crollo del petrolio, l'Opec rispolvera la carta di un asse con la Russia: strategia già tentata più volte in passato e più volte fallita, ma che stavolta – con Mosca ai ferri corti con l'Occidente – potrebbe forse avere qualche chance di successo in più.

Promotore dell'iniziativa nella versione 2014 è il Venezuela, che ha inviato in giro per il mondo Rafael Ramirez, suo ministro degli Esteri, nonché rappresentante all'Opec, per guadagnare consensi su un «piano per la difesa dei prezzi», dopo che il greggio ha perso un terzo del suo valore in quattro mesi, finendo sotto 80 dollari al barile. La visita in Russia sembra aver portato qualche frutto. «C'è un'iniziativa in corso – ha confermato il ministro dell'Energia russo Alexander Novak – Ne abbiamo discusso e da parte nostra ora stiamo esaminando le proposte». Il tutto in vista di un nuovo incontro – che dovrebbe coinvolgere anche esponenti di altri paesi, Opec e non – il 25 novembre a Vienna, appena due giorni prima del vertice dell'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, che si terrà nella stessa città.

Secondo una notizia battuta lunedì sera dalla Reuters, proprio il 25 novembre dovrebbe arrivare nella capitale austriaca Igor Sechin, il ceo della compania russa Rosneft, amico di vecchia data del presidente Vladimir Putin e attualmente colpito dalle sanzioni Usa. Era stato Sechin, a quei tempi vicepremier (del governo Putin), a partecipare accompagnato da un codazzo di almeno venti funzionari ai vertici Opec del 2008 e del 2009, altro periodo di drammatica caduta del prezzo del barile, e a promettere che Mosca avrebbe affiancato l'Organizzazione nel tagliare la produzione petrolifera. In quell'epoca il Cremlino si era spinto addirittura a a prefigurare una possibile adesione della Russia al Cartello, che in quel modo si sarebbe rafforzato enormemente, arrivando a controllare oltre il 50% del petrolio mondiale.

Le promesse non furono mantenute, come del resto non lo furono in occasioni precedenti. Anche nel 1999 e poi di nuovo nel 2001, all'indomani dell'attentato alle Torri gemelle, l'Opec aveva provato a coordinare un taglio di produzione con altri paesi: oltre alla Russia, la Norvegia, l'Oman e il Messico (quest'ultimo sembra coinvolto anche nell'attuale tentativo). I piani di coordinamento però fallirono, perché tutti i “non Opec” vincolarono la loro partecipazione a quella dei russi e questi tradirono l'impegno. Anzi, nel '99 addirittura aumentarono l'export di 400mila barili al giorno, approfittando dei tagli Opec per espandersi all'estero.

I fallimenti passati sono stati così clamorosi che il mercato non si fida più: il petrolio ha chiuso in ribasso, con il Brent a 78,47 $/barile (-1,1%). Eppure stavolta Mosca è tanto isolata dalla comunità internazionale e tanto preoccupata dal crollo del barile che forse potrebbe partecipare davvero. O almeno fingere in modo credibile di farlo, presentando come “taglio” un calo di produzione forse ormai inevitabile, vista la crescente difficoltà nel finanziare gli investimenti petroliferi.

L'Opec potrebbe del resto non avere altre vie di uscita che fidarsi della collaborazione altrui: molti dei suoi membri faticheranno a digerire l'imposizione di produrre di meno, ma perché il prezzo del greggio possa risollevarsi è necessaria una forte riduzione dell'offerta. Un sacrificio pesante che, per colmo della beffa, potrebbe persino rivelarsi dannoso: un forte rimbalzo delle quotazioni petrolifere, avverte Goldman Sachs, potrebbe far accelerare lo shale oil americano.

twitter.com/SissiBellomo
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