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Questo articolo è stato pubblicato il 06 dicembre 2014 alle ore 09:23.
L'ultima modifica è del 06 dicembre 2014 alle ore 09:31.

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Non succederà domani. Ma la macchina dello shale oil americano rischia davvero di incepparsi nel corso del 2015, a giudicare dalla sabbia che si è già accumulata nei suoi ingranaggi.

La caduta del prezzo del petrolio è il granello più visibile. E ormai non si tratta di poca cosa: da giugno le quotazioni sono scese di circa il 40% e ancora non si intravvede la fine dei ribassi. Ieri il Brent ha chiuso a 69,07 dollari al barile e il Wti a 65,84 $, entrambi in ribasso di circa l'1% e vicinissimi ai minimi da 5 anni, ma in alcune aree di fracking degli Stati Uniti – tra cui Bakken, in North Dakota – già si registrano prezzi intorno a 50 dollari. I pozzi già in produzione hanno costi operativi molto bassi – in molti casi addirittura 10-20 $/barile – e dunque non verranno certo fermati (il tasso di declino per lo shale è comunque molto rapido: del 65-90% dopo il primo anno secondo l'Oxford Institute of Energy Studies).
I costi sono molto più alti se si parte da zero: Wood Mackenzie stima che il brekeven medio dello shale oil sia 65-70 $. Ovviamente, come insegna il pollo di Trilussa, dietro il dato medio si cela una grande varietà di situazioni, legate alla geologia, alle tecniche estrattive adoperate, alle capacità di ciascuna impresa e quant'altro. Sta di fatto che il petrolio è già sceso a quei livelli di prezzo. Se ci resta, secondo la società di consulenza, gli investimenti nello shale verranno tagliati del 20%, con un conseguente rallentamento della crescita della produzione Usa al 10% l'anno, ritmo ancora molto elevato, ma inferiore rispetto agli anni passati. Se invece il petrolio dovesse attestarsi a 60 $ – il prezzo al quale si dice i sauditi vogliano portarlo – gli investimenti potrebbero essere dimezzati secondo Wood Mackenzie e la produzione smettere di crescere.

Le società Usa attive nel fracking continuano quasi tutte a prevedere che estrarranno più greggio nel 2015 (cosa che del resto fa anche il governo americano, secondo cui l'anno prossimo la produzione salirà a 9,4 milioni di barili al giorno l'anno prossimo, un record dal 1972). Molte tuttavia hanno già ridotto il target di investimento e altri tagli saranno probabilmente comunicati tra gennaio e febbraio, con la presentazione dei prossimi bilanci.
Negli ingranaggi dello shale oil c'è però anche almeno un altro granello di sabbia, tutt'altro che trascurabile: quello dei finanziamenti. È un granello che rischia di essere perso di vista dagli esperti di petrolio, ma che è ben visibile – addirittura vistoso ormai – per chi opera sul mercato delle obbligazioni high yield, più volgarmente noto come «debito spazzatura», per l'alto rischio di insolvenza degli emittenti.
Il settore dell'energia, pur avendo raddoppiato il suo peso dal 2008, rappresenta tuttora solo il 16% del mercato dei junk bond Usa, che a sua volta vale circa 1.300 miliardi di dollari. Ma è ormai nell'occhio del ciclone, tanto da sollevare timori per l'intera asset class. I rendimenti hanno già raggiunto l'8-9%, dal già allarmante 6,9% registrato meno di un mese fa (si veda Il Sole 24 Ore del 13 novembre). Da inizio anno il total return, che include le cedole, è negativo: -5,3%, contro il +3,1% dell'indice Us High Yield di BofA Merrill Lynch. Un terzo di queste obbligazioni – emessein molti casi da società attive nello shale oil – è già considerato “distressed”, vale a dire che c'è un'alta probabilità di ristrutturazione del debito.

Ad avere in mano la maggior parte dei junk bond energetici sono i fondi di investimento americani e dai prospetti, osserva Reuters, emerge che molti sono tra i più rischiosi sul mercato, con uno spread di oltre 1.000 basis point rispetto ai titoli di Stato Usa. Adesso stanno cercando di ridimensionarne la presenza in portafoglio, anche per non sfigurare con i clienti nei rendiconti di fine anno. «Penso che siamo già nella fase in cui la gente sta vendendo tutto quello che può», commenta Ashish Shah, Head of global credit di AllianceBernstein, osservando come la liquidità sul mercato secondario stia calando. A tirare le conclusioni è David Kurtz, Global head of restructuring di Lazard: «Ho la sensazione che siamo sul punto di avere cattive notizie e che vedremo le cose andare ancora peggio prima di migliorare».

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