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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2014 alle ore 07:53.
L'ultima modifica è del 11 dicembre 2014 alle ore 11:17.

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Scordiamoci i binomi del passato, come “austerity e greggio alle stelle”, lo stigma dello choc petrolifero degli anni '70, oppure “oro bene rifugio”, in voga nel primo decennio dei 2000, anticamera di una crisi profonda. Il nuovo millennio ha iniziato a tracciare percorsi economici ignoti e ha messo in dubbio storici paradigmi: oggi il barile vale meno di 70 dollari, neanche la metà che nel 2008, poco prima che il fallimento di Lehman Brothers diventasse simbolo della bufera finanziaria globale; il metallo giallo ha perso un terzo del valore a 1.200 dollari l'oncia, dal picco oltre i 1.920 di fine 2011, perché gli investitori preferiscono comprare azioni rischiose e rigide obbligazioni a tasso fisso piuttosto che il pregiato metallo giallo, nonostante le incertezze sulla crescita.
Possiamo solo gioire della maggiore convenienza dei prodotti energetici e dei preziosi, ma c'è da augurarsi che rincarino un po'. Masochismo da consumatori? No, il rialzo sarebbe il segnale di una ripresa della spesa per consumi e investimenti e del risveglio dell'inflazione dall'inerzia totale. In sintesi, sarebbe un sintomo di ripresa. Però oro e petrolio potrebbero prendere direzioni diverse o tenere ritmi differenti.

Petrolio balsamico
«Il petrolio più basso ha molte virtù nel contesto attuale dell'Eurozona e potrebbe essere salutare», afferma Philippe Waechter, capo economista di Natixis Asset Management -. La caduta della quotazione del greggio funziona come un trasferimento dai Paesi produttori a quelli consumatori e porta a un rapido miglioramento di questi ultimi, attraverso l'aumento dei margini delle imprese industriali e ai risparmi delle famiglie sulle bollette». Di fatto, come osservano gli specialisti di Aberdeen Asset Management, il petrolio a buon mercato funziona come un taglio fiscale e spinge la fiducia dei consumatori. Gli investitori, però, guardano con preoccupazione al calo del prezzo dell'oro nero, perché riflette il rallentamento della crescita globale; vero, in parte, ma è importante sottolineare che il ribasso coincide con una maggiore disponibilità di materia prima, dovuta all'aumento dell'estrazione.

La guerra dell'oro nero e la graffiata dell'orso sulle materie prime
Il mancato accordo tra i Paesi dell'Opec su un taglio della produzione ha levato ogni certezza su una guerra dei prezzi in atto, commenta Alessandro Balsotti, Senior Portfolio Manager di Jci Capital. Il conflitto è aperto su due fronti: quello tra l'Arabia Saudita (più forte, che mira a mantenere le quote di mercato a costo di prezzi più bassi) e i produttori più deboli (Siria, Iran, Russia, che avrebbero interesse a limitare la discesa); e quello tra Opec e i produttori americani, che utilizzano le nuove tecniche di estrazione (shale oil). A ciò, si aggiungono altre cause che pesano sul mercato delle materie prime in generale; Crédit Suisse individua, oltre all'aumento di produzione: il rallentamento della Cina che è uno dei maggiori consumatori di risorse; il rafforzamento del dollaro, che è la moneta di denominazione di molte commodities; prezzi reali, cioè depurati dalla bassa inflazione, che sono alti rispetto alla media storica; prezzi alla produzione che tendono a calare, per via della discesa dei salari e dei costi di finanziamento.

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