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Questo articolo è stato pubblicato il 31 dicembre 2014 alle ore 06:37.
L'ultima modifica è del 31 dicembre 2014 alle ore 09:26.

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Non è stata una progressione lenta come nel caso di Enel, dove i cinesi hanno fatto il loro primo ingresso nel 2011 (con una piccola quota, 500mila titoli) per poi salire via via nell’azionariato. Né un’operazione messa in campo, si pensi a Mediobanca, nello stesso giorno, il 14 ottobre scorso, in cui il premier Matteo Renzi stringeva la mano a Palazzo Chigi al primo ministro della Repubblica popolare della Cina, Li Keqiang. Ma tant’è. Dal 18 dicembre la People’s Bank of China ha ampliato il proprio portafoglio di investimenti italiani, entrando anche in Saipem. Come ha reso noto ieri la Consob, il colosso bancario di Pechino ha superato la prima soglia significativa per le partecipazioni rilevanti e palesato così la sua presenza nel capitale del gruppo guidato da Umberto Vergine.

Scorrendo gli atti dell’ultima assemblea di bilancio, non si ha traccia della presenza dell’istituto bancario in assise. Ora, però, i cinesi, che hanno cominciato il loro shopping anni fa comprando titoli di Stato, rafforzano ulteriormente la loro esposizione sull’equity, investendo nella controllata di Eni.

Ieri, poi, la società è tornata con un comunicato anche sulla vicenda South Stream dopo che Gazprom ha reso noto di aver ricomprato le quote dei soci di minoranza del consorzio (Eni, la francese Edf e i tedeschi di Wintershall): nessun cambiamento dopo la notifica di sospensione giunta a Saipem a valle dello stop al progetto di gasdotto.

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