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Questo articolo è stato pubblicato il 09 gennaio 2015 alle ore 07:39.
L'ultima modifica è del 09 gennaio 2015 alle ore 10:08.

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Il crollo del petrolio ha fatto una prima vittima tra gli operatori dello shale oil americano. Si tratta della texana Wbh Energy, una società molto piccola, il cui destino è irrilevante per l’andamento del settore, ma il suo fallimento potrebbe non restare isolato. Nella richiesta di ammissione al Chapter 11 Wbh sostiene di avere debiti compresi tra 10 e 50 milioni di dollari (lo stesso range viene indicato per il patrimonio) e spiega che un creditore le ha rifiutato ulteriori finanziamenti. Con il greggio che ha dimezzato il valore in sei mesi, finendo sotto 50 $/barile, non sono pochi i “frackers” che rischiano di fare la stessa fine.

Moody’s ha avvertito ieri che le banche si avviano probabilmente a stringere i cordoni della borsa, spingendo le società più vulnerabili nel settore energetico, quelle attive nell’Exploration & Production, a chiedere ulteriori prestiti impegnando a garanzia le riserve petrolifere o altri asset. Le obbligazioni che erano state emesse dalle stesse società risultano meno tutelate di tali prestiti, avverte l’agenzia di rating, con un conseguente maggior rischio per gli investitori. La situazione potrebbe insomma accelerare la fuga, già in atto, dai junk bond energetici.

Almeno nel breve termine è improbabile che si arrivi ad una crisi tale da frenare la produzione petrolifera statunitense, rilanciando le quotazioni del barile. I costi crescenti di servizio del debito, che nell’insieme sfiora 200 miliardi di $ (+55% dal 2010), potrebbero anzi essere tra i motivi che stanno spingendo le società attive nello shale oil a non rallentare le estrazioni.

Le compagnie americane stanno inoltre cercando di reagire alla debolezza del mercato anche con l’export, in modo da spuntare prezzi più alti: lo scorso novembre, nonostante la legislazione tuttora restrittiva, hanno varcato i confini Usa 501.766 barili di greggio, secondo dati Us Census, un record almeno dal 1920. Il dipartimento del Commercio ha intanto diramato delle linee guida per consentire di esportare senza autorizzazione preventiva i condensati dopo una leggera lavorazione.

Con il greggio che resta vicino ai minimi dal 2009 (Brent e Wti hanno chiuso ieri a 50,96 e 48,79 $/barile), la situazione si sta comunque facendo sempre più rischiosa, anche per imprese ben più rilevanti di Wbh Energy. Gli analisti di CreditSights hanno identificato 25 società Usa ad alto rischio di default nel settore, mettendo in cima alla lista Sabine Oil & Gas, Venoco e Quicksilver Resources. Segnali inquietanti arrivano intanto anche da gruppi di grandi dimensioni: obbligazioni “investment grade” per 27 miliardi di $ nel settore energia, avverte Bloomberg Intelligence, hanno ormai rendimenti paragonabili a quelli dei più rischiosi junk bond, in quanto lo spread rispetto ai titoli di Stato Usa supera 361 basis point (ossia lo spread medio per le obbligazioni corporate con rating BB+). In queste condizioni ci sono Transocean, specializzata in trivellazioni offshore, che nel 2014 è stata anche il peggior titolo a Wall Street, e Continental Resources, la società di Harold Hamm che ha rinunciato a coprirsi dal rischio di ribasso del greggio, ma anche Noble, Weatherford International e Superior Energy Services.

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