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Questo articolo è stato pubblicato il 20 gennaio 2015 alle ore 07:18.

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Euro debole e petrolio ai minimi. L'economia reale italiana è davvero nel cuore – benefico – della tempesta perfetta. Il quantitative easing progettato dalla Bce di Mario Draghi rende tutt'altro che fantascientifico – sul medio periodo – il cambio 1 a 1 dell'euro con il dollaro. Anche se i vantaggi strutturali sul nostro export rischiano di essere in parte neutralizzati dagli aggiustamenti che, negli ultimi due anni, si sono verificati fra grandi aree monetarie – e dunque commerciali e industriali – come il Brasile e l'India, la Turchia e il Giappone.
Nella cornice di questa rimodulazione globale si colloca la scelta della banca centrale elvetica. La minore forza del cartello dell'Opec e la politica energetica statunitense basata sullo shale gas hanno favorito il crollo del prezzo del greggio, così da ridurre i costi dei settori più energy intensive. Il problema è che questa dinamica si inserisce in un quadro macroeconomico comunitario segnato da movimenti deflattivi, paradossalmente accentuabili dal contro-shock petrolifero.

Procediamo con ordine. Iniziamo dal tema monetario. La Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo ha calcolato l'effetto di un deprezzamento del 10% del cambio euro-dollaro: +1,5% dell'export reale. «Si tratta di un incremento non irrilevante – nota Fabrizio Guelpa, responsabile Industry and Banking Research –, ma che non può non tenere conto di due elementi. In primo luogo, soltanto il 10% del nostro export è pagato in dollari. In secondo luogo, i prodotti denominati in euro devono comunque competere, nell'area del dollaro, con beni prodotti da altri Paesi, la cui valuta si è deprezzata contro il dollaro, come ad esempio lo yen e il real brasiliano».
Senz'altro, il vantaggio sarà significativo per le imprese italiane che riescono a esportare componenti e servizi negli Stati Uniti, penetrando così con maggiore forza nelle catene del valore globale di matrice nord-americana. «La meccatronica e l'automotive italiano – osserva per esempio Giampaolo Vitali, industrialista del Ceris Cnr e segretario del Gruppo economisti di impresa – sono in una posizione strategica favorevole». Non c'è solo Sergio Marchionne a sorridere, con Fiat Chrysler che fabbrica Ferrari e Maserati, Jeep e Alfa in euro e su di esse appone un listino in dollari negli autosaloni di Boston e di San Francisco, di Dallas e di Miami. «Ci sono anche i piccoli fornitori e i medi componentisti – continua Vitali – non soltanto dell'automotive, ma anche dell'elettronica e della meccanica italiana». In ogni caso, il vantaggio di uno scenario dollaro-euro 1 a 1 va comunque diluito in una realtà complessa e articolata come quella dei cambi internazionali. «Tanto che – sottolinea Guelpa – il tasso di cambio effettivo nominale dell'euro è ancora oggi leggermente sopra la media storica, dato che molte valute sono deboli». La questione cambi appare dunque graduale e vivificante, anche se non stravolgente, per la nostra economia reale.

Più ambiguo e potenzialmente esplosivo, invece, sembra il tema dello shock petrolifero. «Su corpi organici come i sistemi industriali nazionali – osserva Fedele De Novellis, economista senior di Ref Ricerche – non è facile cogliere le conseguenze profonde e durature di un greggio che ha una volatilità altissima». Ref Ricerche, in ogni caso, ha elaborato alcune ipotesi: con un greggio a 50 dollari, l'effetto di stimolo sarebbe quantificabile – in due anni – in almeno un punto cumulato di Pil in più. Restando, invece, su un piano più micro, con un greggio a 60 dollari alcuni settori – in cui il costo dell'energia è magna pars della struttura della competitività – avrebbero una riduzione non irrilevante dei costi industriali netti: -1% il tessile, -2,5% le lavorazioni metalliche, -1,6% la meccanica, perfino -1,5% l'agricoltura.
C'è un problema, però. E il problema è rappresentato dalla dinamica – ambigua e sfuggente – dell'interrelazione fra il contro-shock del greggio, la fisiologia dell'“involucro” macroeconomico europeo e la patologia di un sistema produttivo italiano che sta mostrando i primi sintomi di deflazione, la peggiore fra le febbri della finanza di impresa. Scrive il capoeconomista di Nomisma, Sergio De Nardis, in un sofisticato report dal titolo “Insidie petrolifere”: «In condizioni normali il calo del greggio è una notizia univocamente positiva: la flessione aumenta i redditi reali dei consumatori e i profitti delle imprese nei Paesi importatori, come l'Italia e le altre economie europee; la spinta sulle loro domande interne più che compensa il regresso dell'export verso i Paesi fornitori di energia e traina la crescita del Pil».

Così è successo nel 1986. Il 2015, però, è un'altra cosa rispetto al 1986. «L'economia europea – continua De Nardis – da alcuni anni non opera più in condizioni normali. Si trova nell'eccezione. L'inflazione è a zero. Negativa in diversi Paesi. I tassi di interesse della Bce sono anch'essi a zero, il limite minimo possibile. Inoltre, in Italia e in gran parte dell'area euro, è in corso un processo di riduzione del debito da parte dello Stato e del settore privato. Così, l'ulteriore impulso al ribasso sulla dinamica dei prezzi, fornito dal petrolio, rischia di abbattere ancora più le aspettative di inflazione, facendo aumentare i tassi di interesse reali e causando, così, effetti depressivi».

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