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Questo articolo è stato pubblicato il 03 febbraio 2015 alle ore 07:24.

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Dopo l’eccezionale rimbalzo di venerdì, ci si poteva aspettare qualche presa di profitto. Invece il petrolio ha continuato ad apprezzarsi. Il Brent, dopo essere risalito dell’8% in una seduta - cosa che non accadeva dal 2009 - ieri ha chiuso con un ulteriore progresso del 3,3% a 54,75 dollari al barile, dopo essersi spinto fino a 55,62 $. Il Wti, tornato brevemente sopra 50 $, ha concluso a 49,57 $ (+2,8%).

Le premesse per imboccare nuovamente la via del ribasso non sarebbero mancate. Ed è probabilmente per questo che la volatilità è stata davvero estrema, con oscillazioni superiori a 4 $/barile. Alla fine hanno prevalso le forze rialziste, nonostante i dati economici deludenti da Usa e Cina (rispettivamente primo e secondo consumatore mondiale di petrolio) e nonostante l’avvio di uno sciopero nelle raffinerie americane, che oltre Oceano minaccia di accrescere ulteriormente le scorte commerciali di greggio, già superiori a 400 milioni di barili: un record dal lontano 1931.

Genscape, che stima l’entità degli stock mediante riprese da satellite, calcola che solo a Cushing, il punto di consegna del Wti in Oklahoma, si siano accumulati altri 2,3 milioni di barili di greggio la settimana scorsa, quando ancora nessun impianto di raffinazione era interessato da proteste. Ora sono nove, per una capacità complessiva di 1,8 milioni di barili al giorno. E uno di questi, la raffineria californiana di Martinez, di Tesoro Corp, ieri sera ha avviato il fermo totale della produzione.

Lo sciopero, proclamato domenica dalla United Steelworkers (Usw) dopo la rottura delle trattative per il rinnovo contrattuale, minaccia ora di estendersi. L’ultima protesta a livello nazionale, che risale al 1980, era durata ben tre mesi e in caso di adesione di tutti gli iscritti al sindacato, la produzione Usa di combustibili potrebbe in teoria crollare del 64%, stima Bloomberg.

Niente di tutto ciò è comunque riuscito a turbare, se non brevemente, la rinnovata tendenza rialzista del petrolio. Tanto che qualche analista ha già cominciato ad ipotizzare che le quotazioni possano aver toccato il fondo.

In realtà quanto sta accadendo sul mercato ha molto a che fare con elementi tecnici e speculativi. Al Nymex in particolare le posizioni degli hedge funds si sono polarizzate in modo drammatico: quelle “lunghe” - in pratica, le scommesse su rialzi del greggio - hanno raggiunto l’equivalente di 373 milioni di barili la settimana scorsa, il massimo da luglio 2014; quelle “corte”, benché pari a soli 130 mb, non sono mai state così numerose da novembre 2010. Il nervosismo è alle stelle e non soprende che ogni notizia vagamente rialzista possa scatenare una corsa alle ricoperture, ossia al riacquisto di posizioni corte.

Così come i fattori ribassisti non mancano, anche quelli potenzialmente rialzisti stanno cominciando ad emergere: la frenata record degli impianti di trivellazione negli Usa, che venerdì ha infiammato le quotazioni del greggio, secondo Tudor, Pickering, Holt & Co rende «sempre più plausibile» l’ipotesi di un calo del 40% dei “drilling rigs” entro metà anno, che potrebbe far contrarre la produzione Usa di 600mila barili al giorno tra il 2015 e il 2016.

Le grandi compagnie petrolifere peraltro non si sentono ancora al sicuro. «Bisogna stabilizzare domanda e offerta e dobbiamo farlo velocemente per non danneggiare gli investimenti di lungo termine», ha esortato il ceo dell’Eni, Claudio Descalzi, lanciando la proposta provocatoria di creare «una sorta di banca centrale», che intervenga a sanare gli squilibri sul mercato. «L’Opec da sola non può funzionare - avverte Descalzi - . Serve una più ampia discussione tra i grandi produttori come Arabia Saudita, Stati Uniti e Russia».

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