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Questo articolo è stato pubblicato il 28 febbraio 2015 alle ore 09:34.

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(Reuters)(Reuters)

Dopo sette mesi consecutivi all’insegna del ribasso, febbraio ha segnato un’inversione di rotta per il petrolio, qualificandosi addirittura come il miglior mese da quasi sei anni nel caso del Brent: il greggio europeo si è apprezzato del 18,1%, il rialzo mensile più forte da maggio 2009, chiudendo ieri a 62,58 dollari al barile. Il recupero ha già indotto molti analisti a chiedersi se il crollo del barile non sia ormai da considerarsi alle spalle, ma il futuro dei mercati petroliferi è tuttora incerto e non è da escludere che si possa assistere a un “double dip”, una doppia caduta.

La volatilità rimane altissima: quest’anno, su 38 sedute di contrattazione, ben 25 si sono concluse con il petrolio in rialzo o viceversa in ribasso di oltre il 2 per cento. Inoltre, se il Brent ha preso con decisione una traiettoria verso l’alto, lo stesso non si può dire dell’americano Wti, che in febbraio è risalito solo di un risicato 3,3% (a 49,76 $) e in gran parte grazie al balzo messo a segno ieri in risposta all’ulteriore riduzione del numero di trivelle attive negli Usa: quelle per l’estrazione di petrolio secondo Backer Hughes sono calate di altre 33 unità la settimana scorsa e sono ora 986, oltre un terzo in meno nel giro di quattro mesi.

Negli ultimi giorni la differenza tra i due benchmark petroliferi è tornata ad ampliarsi, fino a superare ieri 13 $/barile: una situazione che sta giocando a favore dell’Opec - e a svantaggio dello shale oil americano - perché molti paesi dell’Organizzazione prezzano il loro greggio in riferimento al Brent. Il Wti invece è ormai un benchmark locale, utilizzato solo negli Stati Uniti. Ed è così che gli investitori hanno ricominciato a trattarlo.

Dopo l’ondata di vendite indiscriminate degli ultimi mesi, a restare deboli sono state le quotazioni del petrolio davvero in eccesso: quello «made in Usa». Comprensibilmente il Brent ha risentito di più del crollo della produzione libica e delle recenti difficoltà di esportazione provocate dal maltempo in Iraq, che secondo stime Reuters avrebbero provocato un taglio (involontario) della produzione Opec di 350mila barili al giorno in febbraio, a 29,9 milioni di bg,  un livello inferiore al tetto ufficiale del cartello e il più basso dallo scorso giugno (quando il petrolio si era spinto oltre 115 $, prima di avviare il crollo).

Negli Usa invece, almeno per ora, la produzione continua a crescere: la settimana scorsa ha raggiunto 9,3 mbg. Ma l’eccesso di greggio sta anche gonfiando a dismisura le scorte, a cominciare da quelle di Cushing, punto di consegna del Wti, che sono al livello record di 48,7 milioni di barili e vicine a saturare i serbatoi di stoccaggio. A questi ritmi la loro capacità complessiva, stimata di 70 mb, potrebbe esaurirsi tra circa un mese ed è proprio questa situazione a pesare sulle quotazioni del benchmark americano.

Viceversa l’incentivo allo stoccaggio è fortemente diminuito nel caso del Brent. Il deciso recupero del prezzo a pronti ha infatti ridotto il contango, ossia lo sconto rispetto alle scadenze più lontane. E ci sono segnali che la caccia alle petroliere da destinare a stoccaggio galleggiante si stia già placando: dei 25-30 tanker noleggiati a questo scopo un mese fa, solo una decina sarebbero tuttora all’ancora per fare da “magazzino”.

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