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Questo articolo è stato pubblicato il 14 marzo 2015 alle ore 09:40.
L'ultima modifica è del 14 marzo 2015 alle ore 09:44.

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Il ribasso del petrolio ha fatto il miracolo di risvegliare la domanda europea, ma non quello di arginare lo shale oil americano. La produzione Usa - responsabile numero uno dell’eccesso di offerta che grava sul mercato - continua a crescere al punto che presto non si saprà più dove metterla, avverte l’Agenzia internazionale per l’energia (Aie): le scorte Usa, già a livelli da primato, tra poco potrebbero superare la capacità dei serbatoi di stoccaggio e «questo condurrebbe inevitabilmente a una rinnovata debolezza dei prezzi». Solo dopo un’ulteriore discesa «scatterebbero quei tagli di produzione che finora sono rimasti elusivi».

La recente stabilità del mercato è solo una «facciata», secondo l’agenzia dell’Ocse: «Il riequilibrio indotto dal crollo dei prezzi deve ancora realizzarsi e sarebbe troppo ottimista aspettarsi che il processo avvenga senza scossoni».

Le quotazioni del barile - dopo una netta ripresa seguita da una fase di prezzi stabili - in realtà sono già tornate da qualche giorno sotto pressione. Il monito dell’Aie non ha fatto che accelerarne la discesa: il Wti è crollato del 4,7% a 44,84 dollari al barile, il Brent del 4,2% a 54,67 $, ai minimi da oltre un mese.Non sono riusciti a interrompere la caduta nemmeno le statistiche di Backer Hughes, che hanno mostrato un’ulteriore frenata delle attività estrattive, per la quattordicesima settimana consecutiva: negli Usa si sono fermate altre 56 trivelle per la ricerca di greggio, portando a 866 il numero di impianti attivi, il minimo da marzo 2011. In Canada, anche per motivi climatici, le trivelle si sono ridotte addirittura del 27% in una settimana e sono ormai quasi dimezzate rispetto a un anno fa: appena 220, tra petrolio e gas.

Giovedì il North Dakota, patria di gran parte dello shale oil americano, aveva comunicato un calo del 3,3% della produzione in gennaio (a 1,2 milioni di barili al giorno) e annunciato «mesi di produzione calante». Segno che qualche reazione al ribasso dei prezzi si sta cominciando ad osservare. Nel complesso tuttavia l’output negli Stati Uniti continua ad aumentare.

L’Aie, già oggetto di critiche per i frequenti (e talvolta macroscopici) errori previsionali, anche stavolta ha dovuto correggere il tiro: un paio di mesi fa evidenziava «crescenti segnali di un’inversione di tendenza» per lo shale oil, mentre oggi riconosce che «l’offerta Usa ha finora mostrato pochissimi segnali di rallentamento, anzi continua a sfidare le aspettative».

Il risultato è che la produzione petrolifera non Opec è aumentata solo in febbraio di 270mila barili al giorno (quasi tutti «made in Usa»), arrivando a 57,3 milioni di bg. Conteggiando anche i barili dell’Opec si è arrivati a 94 mbg: 1,3 mbg in più rispetto a un anno fa. Anche la domanda sta migliorando, persino nel Vecchio continente. E si tratta addirittura di consumi finali: «La domanda di prodotti raffinati ha mostrato segni di vita - afferma l’Aie - Addirittura la domanda europea è emersa dal suo lungo declino per mostrare una robusta crescita del 3,2% in dicembre, seguita da un +0,9% in gennaio».

L’Aie ne è stata incoraggiata al punto da alzare le stime sulla domanda 2015: ora la vede crescere di 1 mbg (+75mila), a 93,5 mbg. Ma trainare sono soprattutto gli acquisti opportunistici delle raffinerie, che vedono finalmente margini migliori, o degli speculatori che accumulano scorte. Entrambi i fattori rischiano di venire meno.

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