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Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2015 alle ore 07:53.
L'ultima modifica è del 24 marzo 2015 alle ore 10:56.

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Con un pizzico di fortuna e una buona dose di astuzia da mercante, l’Arabia Saudita è riuscita a vendere quantità crescenti di petrolio, riconquistando quote di mercato ai danni dei concorrenti: esattamente lo scopo che si prefiggeva quando ha convinto l’Opec a non cedere alla tentazione di tagliare l’output. Riyadh non l’ha fatto. Al contrario. Il ministro Ali Al Naimi, di solito molto misurato nelle sue dichiarazioni, ha detto nel week end che la produzione saudita di greggio è risalita intorno al record storico di 10 milioni di barili al giorno, 350mila bg più del livello indicato in febbraio.

La poche volte che l’Arabia Saudita ha estratto così tanto (l’ultima lo scorso luglio) era estate, periodo in cui il consumo locale si impenna con l’impiego di elettricità per gli impianti di condizionamento. Stavolta si ritiene che i barili extra siano andati solo in parte a rifornire il mercato locale (dove pure è aumentata la capacità di raffinazione). Il grosso è finito all’estero, assicura Gary Ross, presidente del Pira Energy Group, società di consulenza tra le più autorevoli del settore. Le consegne sarebbero cresciute non solo in Asia, ma anche negli Stati Uniti e in Europa, dove il greggio saudita si è avvantaggiato anche del maltempo che ha frenato l’export da Iraq, Russia e Kazakhstan.

Riyadh è comunque riuscita a sottrarre clienti anche ad altri produttori, tra cui il Venezuela e la Nigeria (anch’essi nell’Opec, come l’Iraq e la stessa Arabia Saudita). «Hanno praticato prezzi supercompetitivi - spiega Amrita Sen, di Energy Aspects - Per questo c’è una forte domanda per il loro greggio».

I rivali dello shale oil americano su questo terreno non possono competere, perché dagli Usa esportare greggio resta quasi del tutto vietato. Una situazione che sta accentuando le aberrazioni sul mercato e che crea un nervosismo crescente tra le compagnie petrolifere. «Soffriamo di uno svantaggio competitivo - ha denunciato la setttimana scorsa Ryan Lance, ceo di ConocoPhillips, in un’audizione alla commissione Energia del Senato Usa. «I nostri concorrenti oltre Oceano si stanno espandendo nel mondo grazie a prezzi più alti di quelli che spuntiamo noi per un prodotto di qualità analoga».

Intrappolato nei confini degli Usa, il petrolio Wti scambia a sconto di quasi 9 dollari rispetto al benchmark globale, il Brent: ieri hanno chiuso rispettivamente a 47,45 e 55,92 $/barile (di nuovo in rialzo grazie a un cedimento del dollaro). Con le scorte americane a livelli di allarme, gli hedge funds nell’ultima settimana hanno aumentato di oltre il 20% le posizioni corte (alla vendita) sul Wti, arrivando all’equivalente di 209 milioni di barili, un record. Le posizioni lunghe sono ancora prevalenti, ma la proporzione rispetto alle corte è scesa a 1,8 : 1, la più bassa da quasi 5 anni. Al contrario, le scommesse ribassiste sul Brent sono aumentate solo dell’1% la settimana scorsa e dal picco di settembre sono diminuite del 40%.

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