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Questo articolo è stato pubblicato il 01 aprile 2015 alle ore 07:45.
L'ultima modifica è del 01 aprile 2015 alle ore 08:50.

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(afp)(afp)

La prospettiva di un accordo con l’Iran sta tenendo da tempo i mercati petroliferi con il fiato sospeso. La cancellazione delle sanzioni contro Teheran, per quanto graduale, rischia di rimettere in circolo oltre un milione di barili di greggio al giorno, nel peggior momento possibile: già adesso si stima che l’offerta di petrolio superi la domanda di 1-1,5 mbg e con l’arrivo della bella stagione - che porta con sè minori consumi di combustibile - il surplus minaccia di crescere ulteriormente.

Le scorte sono già a livelli di allarme: negli Stati Uniti, con la produzione di shale oil che tarda a frenare, sono ai massimi da oltre 80 anni e a Cushing, punto di consegna per il greggio Wti, i serbatoi minacciano di traboccare. Anche la Cina intanto è afflitta da problemi analoghi e ha già rallentato il ritmo delle importazioni petrolifere.

Aggiungere altro petrolio sul mercato avrebbe un effetto devastante sul prezzo del barile, che è già più che dimezzato rispetto all’estate scorsa. Le fasi finali della maratona negoziale con l’Iran hanno dato un forte contributo a risvegliare le pressioni ribassiste sul greggio nell’ultimo mese, cancellando del tutto il recupero di febbraio e contrastando ogni spinta al rialzo, comprese quelle provocate dall’intervento saudita in Yemen, che non si sta profilando come una guerra lampo: proprio ieri la norvegese Dno ha comunicato di aver interrotto la produzione nel paese, per motivi di sicurezza.

Nonostante il crescente scetticismo sui termini dell’accordo - con la possibilità che le questioni chiave, come le sanzioni,  finissero con l’essere rinviate a giugno - il petrolio anche ieri ha chiuso in ribasso, con perdite superiori al 2% sia per il Brent , a 55,11 dollari al barile, sia per il Wti ( 47,60 $).

La posta in gioco è alta. L’Iran è uno dei giganti mondiali degli idrocarburi, con il 10% delle riserve petrolifere e un quinto di quelle di gas. Nel 2012, prima delle sanzioni occidentali, esportava 2,5 mbg di greggio, mentre oggi è sceso a 1-1,2 mbg. La possibilità di ritornare ai livelli di un tempo «nel giro di pochi mesi» - come ha promesso di recente il ministro del Petrolio Bijan Zanganeh - è apparsa a molti osservatori come una butade. L’allontanamento delle compagnie straniere, tra cui Eni, Total e Bp, ha portato via miliardi di investimenti e la produzione dei pozzi iraniani è anch’essa crollata: attualmente l’Aie la stima intorno a 2,8 mbg, contro i 4,5 mbg di una decina d’anni fa e un picco di 6 mbg nel 1974, prima della rivoluzione.

Anche se le sanzioni fossero immediatamente cancellate (cosa del tutto improbabile), ripristinare i giacimenti potrebbe richiedere del tempo. Gli analisti di Facts Global Energy , tra i più ottimisti, ritengono che ci vogliano 3-6 mesi per alzare l’output di 500mila bg più un anno per aggiungerne ulteriori 700mila. Altri, come Ed Morse di Citigroup, sono più scettici e pensano che Teheran non riuscirà ad ottenere alcun incremento almeno fino alla seconda metà del 2016.

Nel frattempo potrebbe però vendere il petrolio che ha ammassato a bordo di navi: secondo alcune stime fino a 35 milioni di barili. È soprattutto questa minaccia che il mercato sta tenendo d’occhio.

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