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Questo articolo è stato pubblicato il 14 aprile 2015 alle ore 06:57.

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Gli speculatori si stanno convincendo che il peggio sia ormai alle spalle per il mercato del petrolio. Le scommesse su futuri rialzi di prezzo hanno fatto un balzo in avanti nella settimana al 7 aprile, la più recente nelle statistiche, con i fondi di investimento che sul Brent hanno accumulato posizioni nette lunghe (all’acquisto) a livelli che non si raggiungevano dallo scorso luglio, quando il crollo del petrolio era appena cominciato, prendendo in contropiede la maggior parte degli operatori: in tutto 233.929 tra future e opzioni (+14.999).

Un analogo riposizionamento è avvenuto sul Wti: venerdì la Cftc aveva evidenziato l’incremento più forte dal 2011 per i “net longs” degli speculatori (+51.802 contratti, equivalenti a 52 milioni di barili di greggio), risultato dell’apertura di nuove posizioni lunghe, ma soprattutto della chiusura di posizioni corte. In pratica, molti investitori hanno smesso di puntare al ribasso.

Per ora la scommessa sta pagando. Nonostante i venti contrari generati dal rafforzamento del dollaro, il petrolio Wti ha chiuso anche ieri in rialzo (+0,5% a 51,91 $/barile) e il Brent è rimasto stabile a 57,93 $/barile. Entrambi i riferimenti sono tecnicamente in “bull market”, essendo risaliti di oltre il 20% dai minimi: 46,59 $ per il Brent in gennaio e 43,46 $ per il Wti in marzo.

Non solo. Sia per il Brent che per il Wti si è vistosamente ridotto il “contango”, ossia lo sconto del prezzo per consegna vicina rispetto a quello a futuri: una struttura di mercato che di solito accompagna le situazioni di eccesso di offerta e che dovrebbe incoraggiare lo stoccaggio. La differenza di prezzo tra il greggio per giugno e quello per dicembre è ora di circa 4 $, contro gli oltre 6 $ di febbraio.

La convinzione che sta prendendo piede è che il mercato sia avviato a riequilibrarsi dal secondo semestre, grazie a una frenata della produzione petrolifera abbinata a una probabile ripresa della domanda. Tra gli elementi a sostegno di questa tesi c’è la rapidità con cui si stanno fermando gli impianti di perforazione negli Usa: il numero di trivelle attive è dimezzato nel giro di sei mesi, con qualche primo, per quanto debole, risultato anche sulla produzione: l’Energy Information Administration ieri ha annunciato che in maggio nelle maggiori aree di shale oil le estrazioni di minuiranno. A Eagle Ford il calo (-33mila barili al giorno) sarà il più forte da 8 anni.

Sempre dagli Usa arrivano anche segnali di ripresa della domanda. Ma altrove l’effetto del mini-greggio non è così evidente. I dati sulla bilancia commerciale cinese, diffusi proprio ieri, oltre a confermare la debolezza dell’economia asiatica (le esportazioni sono crollate del 15%), mostrano che le importazioni di petrolio in marzo si sono attestate a 6,3 milioni di barili al giorno, il 14% in più rispetto a un anno prima, ma il 5,2% in meno rispetto a febbraio.

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