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Questo articolo è stato pubblicato il 15 aprile 2015 alle ore 07:05.

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L’attesa frenata dello shale oil americano è stata accolta dal mercato con tale entusiasmo, che gli investitori sembrano aver chiuso gli occhi di fronte ai fattori ribassisti che tuttora minacciano le quotazioni del petrolio: dal surplus di offerta - che non solo persiste, ma potrebbe addirittura crescere - al fenomeno recentissimo dei riscatti di Etf sul greggio.

Nelle due settimane all’8 aprile, secondo dati di Lipper, sono stati ritirati 338 milioni di dollari dai quattro maggiori prodotti di investimento della categoria, tra cui lo US Oil Fund. Il loro successo nei mesi passati aveva fornito una preziosa stampella al prezzo del greggio: tuttora hanno un patrimonio di circa 6 miliardi, equivalenti a contratti futures per 150-160 milioni di barili di greggio, pari a circa un terzo delle posizioni aperte sul Wti. Il mercato per ora non ha fatto una piega.

Dopo il Drilling Report dell’Energy Information Administration (Eia) - che lunedì sera aveva annunciato per maggio il primo calo della produzione di shale oil in quattro anni - anche le autorità del North Dakota hanno confermato l’inversione di tendenza, favorendo un nuovo rialzo del prezzo del barile: +2,7% per il Wti a 53,29 $ e +0,9% per il Brent a 58,43 $.

Lo Stato, che grazie all’area di Bakken è uno dei più ricchi di petrolio da scisti, ha registrato un nuovo calo di produzione in febbraio, a 1,77 milioni di barili al giorno (-14mila bg). La discesa, che rispetto al picco di dicembre è già di 50mila bg, è la logica conseguenza della rapida fermata delle trivelle: nel North Dakota ne sono rimaste in attività 91, contro un picco storico di 218. Ci sono tuttavia ben 900 pozzi non completati nello Stato (negli Usa sono oltre 3mila, stima WoodMackenzie): è il cosiddetto “fracklog”, com’è stato battezzato con un neologismo, in pratica la lista d’attesa del fracking, che secondo alcuni analisti potrebbe far ripartire col turbo le estrazioni non appena il prezzo del greggio tornerà appetibile.

Fracklog a parte, il rallentamento del petrolio americano per ora non è molto pronunciato: il calo di maggio sarà di appena 57mila bg secondo l’Eia, che in un altro rapporto diffuso ieri prevede lunga vita per lo shale oil, tanto che la produzione complessiva degli Usa si spingerà fino a un picco di 10,6 mbg nel 2020 (un milione in più di quanto pronosticato un anno fa), per poi mantenersi vent’anni dopo intorno a 9,4 mbg.

Quanto al North Dakota il direttore del dipartimento delle Risorse minerarie, Lynn Helms, assicura che la pausa nelle trivellazioni durerà solo fino a giugno, quando ci sarà «un grande recupero» di produzione. Illusioni? Molto dipenderà dal sostegno che le banche vorranno continuare ad offrire alle indebitatissime società dello shale oil.

Nel frattempo altri fornitori di petrolio stanno aumentando, anziché ridimensionare, il surplus sul mercato. La produzione non solo è a livelli record in Arabia Saudita, con 10,3 mbg in marzo, ma anche in Russia, dove nel primo trimestre sono stati estratti 10,7 mbg, il massimo in era post-sovietica. Con molte piccole raffinerie in crisi e il rublo debole, Mosca ha anche accelerato l’export: è salito a 5,3 mbg, con un rialzo del 7,5% che è il più marcato da 9 anni a questa parte.

Persino la Cina in marzo ha esportato 177mila bg, un record dal 2006 (anche se forse si tratta di petrolio che custodiva in stoccaggio per conto terzi). E nei prossimi mesi l’Iran, sollevato dalle sanzioni, potrebbe reclamare una quota di mercato maggiore. Il ministro del Petrolio Bijan Zanganeh forse anche per questo è tornato all’attacco, spronando l’Opec a tagliare la produzione «almeno del 5%», ossia circa 1,5 mbg.

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